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Rolf Petri

Università di Venezia

Confini / Grenzen

Convegno di studi / Studientagung

Bolzano-Bozen, 23-25 settembre/ 23.-25. September 2004

Gerarchie culturali e confini nazionali. Sulla legittimazione delle frontiere nell’Europa dei secoli XIX e XX

La mia riflessione sul problema dei confini nazionali si basa su studi propri riguardan-ti il concetto di Heimat e quello di Europa, nonché su una ricerca comparata tra due regioni di confine come il Tirolo e lo Schleswig tra Otto e Novecento. È frutto, inol-tre, dell’impegno come coordinatore e curatore di ricerche riguardanti altre aree pluri-lingue di frontiera, pubblicate in un libro curato insieme a Michael G. Müller e in un fascicolo tematico di ‘Memoria e Ricerca’. Ho infine seguito con particolare interesse i lavori coordinati da Marina Cattaruzza e, ultimamente, da Laurence Cole. Mi sento quindi sufficientemente addentro, ormai, a queste tematiche da poter proporre all’attenzione del lettore qualche riflessione più generale, ancorché parziale e provvi-soria, sul problema dei confini nazionali e dei confini tra Stati nazionali.

Il tema che vorrei affrontare in questa sede è duplice. Esso riguarda (1) la legittima-zione di nuove frontiere nazionali e (2) l’intrinseca ambiguità di ogni confine che perpetua nel tempo tale domanda di legittimazione. La prima parte individua due tipi di giustificazione che, nell’Europa dei secoli XVIII-XXI, si danno frequentemente alla trasformazione in senso nazionale di confini territoriali precedenti, o all’erezione di confini nuovi, tra gruppi di uomini che amano definirsi ed essere definiti come ‘na-zioni’. Distinguerò, in particolare, (1.1) la pretesa di un diritto di precedenza sul suolo che viene accostato a un principio o diritto naturale; e (1.2.) la pretesa di un diritto di conquista, non più in versione aristocratica e dinastica ma in versione post-illuministica.

Nella seconda parte si discute del perché i confini nazionali, una volta tracciati e giu-ridicamente riconosciuti, continuino ad esprimere una domanda di legittimazione. Anche dopo l’avvento dello Stato-nazione, molti confini rimangano infatti caratteriz-zati da una più o meno pronunciata labilità, sia sul piano più immediatamente com-prensibile del confronto politico e militare sia più sottilmente su quello culturale. La prima risposta (2.1.) rimanda al carattere intrinsecamente ambiguo di ogni confine, che può divenire segno del Noi solo nella misura in cui diventa segno, anche, dell’Altro. Questa sorta di inclusione inevitabile dell’escludendo, particolarmente lampante nelle aree di frontiera plurilingue, può far si che (2.2.) divergano anche sen-sibilmente i confini nazionali politici da quelli immaginari, i primi essendo tracciati sul territorio fisico e i secondi invece percorrendo uno spazio mentale incerto e fluido.

La proposta complessiva è quella di studiare l’emergere dei confini nazionali non come un percorso teleologico che converge, o dovrebbe convergere, verso uno stato d’equilibrio definitivo, ma come un aspetto particolare della storicità e quindi della contingenza e transitorietà del fenomeno nazionale. Fenomeno i cui contorni geogra-fici e immaginari, alla stregua di tutte le grandi istanze religiose o ideologiche dell’identificazione collettiva, si sottraggono a una esplicazione univoca e definitiva. Le dinamiche dell’erezione, dell’immaginazione e della (de)stabilizzazione dei confi-ni dovrebbero quindi essere più utilmente analizzate nei termini paradossali di una divisione che è al contempo condivisione, e che è soprattutto comunicazione, tra un Noi e un Altro collettivi in perenne ricostruzione.

1. Permanenza e conquista: due discorsi legittimanti le frontiere nazionali

Prima di fornire un poco di polpa storica all’ossatura concettuale dell’ambiguità dei confini, vorrei però tornare sulla questione della legittimazione delle prime frontiere definibili come ‘nazionali’ in un senso moderno e contemporaneo. Ovviamente, quan-to segue parte dal presupposto che, verso la seconda metà del Settecento, un certo lavorio di formazione della nazione – da parte, quanto meno, di un élite culturale – sia ormai compiuto e già entrato nell’immaginario di strati più consistenti della borghesia emergente e di altri gruppi sociali. Partendo da un simile presupposto, valido in quella fase in alcune plaghe del continente e in altre ancora no, si può utilmente esemplifica-re il problema della legittimazione dei confini ricordando le teorie delle due popola-zioni, che in varie versioni circolavano in alcune aree europee, tra cui, ad esempio, la Francia, la Polonia e la Romania.

1.1. Il primato territoriale

Di che si trattava? Si può iniziare a spiegarlo con una situazione che ognuno di noi ha già vissuto in prima persona. Un famiglia X sale in treno al capolinea e occupa con i suoi bagagli uno scompartimento, stendendo comodamente le gambe sui sedili anti-stanti, poggiando oggetti qua e là. Tre stazioni più avanti sale la famiglia Y, che ha prenotato gli altri tre posti dello stesso scompartimento. Tra sorrisi cortesi che mal celano il fastidio, gli X cedono i posti a sedere e spostano una valigia di dieci centi-metri, ma con il grosso del proprio bagaglio gli Y si devono arrangiare alla meglio. Nonostante i loro biglietti gli dessero gli stessi diritti di insediamento, gli Y sono in evidente imbarazzo per aver recato quel disturbo che gli X, per quanto educatamente facciano finta di niente, faticano a non avvertire e mostrare. Qui si scontrano un atavi-co principio di difesa dello spazio con un diritto istituzionale all’uguaglianza, che in questo caso può essere ricollegato a un concetto essenziale o immediato di libertà, che è quello di dirigere il proprio corpo attraverso lo spazio laddove si crede, senza osta-coli eretti da altri uomini. Senza confini, per l’appunto.

Ora, per ogni potere politico basato sul principio territoriale è essenziale sopprimere la più elementare delle libertà, quella cioè del movimento incontrollato dei corpi at-traverso lo spazio. Questa negazione vale anche, e forse ancora più di quanto non va-lesse prima, per la sovranità popolare. Che nel processo della sua instaurazione ha contrapposto all’Antico regime l’atavico principio della precedenza dell’insediamento territoriale.

Le teorie delle due popolazioni nascono, almeno nel caso francese, come teorie legit-timanti il potere aristocratico. Questo è forse già un segno di una territorializzazione del potere in atto nella prima età moderna, per ragioni politiche e socio-economiche. Non intendo certo generalizzare lo scenario europeo, sostenendo nessi universali tra sviluppo socio-economico e forme territoriali del potere. La compresenza complessa di poteri mondani e religiosi sul territorio, tipica del medioevo europeo, risponde più che altro a una contingenza storica. In Cina per esempio abbiamo una continuità mil-lenaria dello Stato territoriale, e forse anche gli Inka avevano una definizione piutto-sto netta del potere statale come gestione del territorio e dei suoi confini. Questo, pe-rò, per converso, non impedisce vedere in Europa anche fattori socio-economici a spingere verso una crescente territorializzazione, che si esprime attraverso la monar-chia assoluta, oppure attraverso più o meno ‘antiche’ o rivoluzionarie forme parteci-pative di vario tipo, dall’Inghilterra alla Svizzera, dagli Stati provinciali al parlamen-tarismo nobiliare della Polonia.

In questo contesto, l’aristocrazia francese legittima i propri privilegi in termini territo-riali, come privilegio di conquista, in quanto si immagina in continuità senza soluzio-ne con i conquistatori franchi, e la chiesa forse anche con quelli precedenti latini, del-lo spazio appunto francese. Contro tale privilegio della conquista, il Terzo stato avrà gioco facile nel contrapporre il principio di precedenza territoriale. Esso si immagina essere il ‘vero popolo’ in quanto discendente dal celtico ceppo dei galli, la famiglia X già presente in scompartimento al momento dell’intrusione franca. Anzi, a ben vede-re, attraverso il culto rousseauiano del primitivo e del naturale – e del trinomio popo-lo-contadino-suolo visibile anche più tardi in Michelet -, il principio di precedenza territoriale si trasforma quasi in un diritto naturale di sovranità popolare e di auto-determinazione. È questo uno dei motivi ultimi del successo delle teorie etnocentri-che, neopagane e anti-latine che imperversano nel continente tra Sette e Ottocento, anche se non ovunque si ricollegano ai termini chiari di un confronto sociale come quello in atto nel caso francese. In Francia, la crescente egemonia borghese trasforma la nobiltà nello straniero interno che va ricacciato oltre confine. La nobiltà diventa quell’Altro che dà una forma, un limite, un contorno alla Nazione.

Tutto questo è pertinente al nostro tema in quanto il presunto diritto di precedenza diventa una costante anche nei discorsi sui confini nazionali. Quando dico ‘sui confi-ni’ intendo dire ‘sul tema dei confini’ e anche ‘lungo i confini’. Non si deve credere, ad esempio, che in Alto Adige si possano scavare le mura di un vecchio castro roma-no o di un monastero medievale, o tirare fuori sotto il ghiaccio della montagna una mummia, senza compiere un gesto di valenza simbolica attuale in termini di prece-denza sul territorio, in un senso o nell’altro. Ma anche nello Schleswig dell’Otto e primo Novecento ci si confrontava sul diritto di precedenza. Se gli abitanti dello Jut-land fossero germanici del Sud, ossia ‘tedeschi’, solo successivamente danizzati, op-pure appartenessero al ceppo nordico più meridionale, ossia ‘danese’, fu una questio-ne di eminente valore scientifico tra gli antichisti e i glottologici danesi e tedeschi, proprio perché ritenuta di immediato valore giuridico a livello politico contempora-neo. Qui si stava decidendo il così detto diritto storico a questo o quell’altro tracciato del confine tra due nascenti Stati-nazione. Non mi permetto un giudizio sul lavoro filologico degli antichisti e glottologi delle generazioni passate. Ma mi permetto di segnalare che lo stabilimento di un rapporto di continuità tra ciò che venne a definirsi nazione tedesca e nazione danese e la presunta o vera realtà di popolazioni vissute secoli e millenni addietro fu comunque un’invenzione. Che poi doveva a sua volta supportare l’atavico principio di precedenza territoriale, successivamente trasformato in un istituto del diritto internazionale moderno. E che in fin dei conti rappresenta, anch’esso, solo uno delle varie e arbitrarie legittimazioni del potere e del suo confine territoriale.

1.2. Il primato civile e culturale

Vi è una seconda ragione per sottolineare l’arbitrarietà del potere territoriale derivante dal così detto diritto all’autodeterminazione dei popoli. Non è vero infatti che la so-vranità popolare o nazionale sposasse il solo principio atavico e ‘naturale’ della pre-cedenza sul territorio, lasciando l’idea di conquista alla reazione aristocratica e dina-stica. Anche la Nazione, nel tracciare i confini, ha sempre adoperato tutti e due gli strumenti, e ha sempre cercato di delegittimare tutti e due gli stessi strumenti tenuti in mano da una nazione confinante o concorrente. Anche il popolo, dunque, a partire da quello rivoluzionario francese, ha reclamato a sé un privilegio e anzi un dovere di conquista, sebbene abbia sostituito il precedente significato universalistico e trascen-dente con un altro. Nel caso della nobiltà, sullo sfondo era rimasta la missione religio-sa, la redenzione dei territori pagani o infedeli e la difesa della terra dei cristiani – un principio, questo, manifesto nell’auto-definizione o quanto meno nella memoria mo-derna e nazionalconservatrice dell’impero franco, e in quella dei successivi imperi zarista e asburgico, ad esempio, senza parlare delle crociate medievali e del primo colonialismo. Vediamo come, invece, la Nazione moderna legittima il suo ‘diritto e dovere’ alla conquista.

In approssimazione grossolana possiamo dire che le filosofie della storia del Sette e dell’Ottocento hanno sostituito al paradiso lo stato originario di natura, e alla teologia della redenzione dal peccato la teleologia della redenzione dalla barbarie e dall’ineguaglianza. Alla promessa del cielo, che si configurava come una specie di ritorno a un paradiso superiore in quanto più vicino a Dio, è subentrato quella di un ritorno a una società nuovamente consona all’originaria ‘natura’ dell’uomo, ma al contempo più evoluta e opulenta. La missione cristiana è stata quindi trasformata in missione civilizzatrice, e l’Europa subentrata al cristianesimo nel ruolo di una proie-zione universale, ad esempio nelle parole del marchese di Condorcet, che vedeva in quella europea anticipata tutta la storia dell’umanità.

Tali teorie configurano, prima di tutto, una modifica e nel contempo una prosecuzione delle teorie legittimanti la conquista coloniale. Essi conferiscono un ordine ideologico e gerarchico ai territori del globo a seconda dei principi di progresso e di civiltà. Se gli europei superano i confini del proprio territorio di tradizionale insediamento con-quistando territori ‘vuoti’, esotici e ‘arretrati’, dove ‘il tempo si è fermato’, non è per egoistica volontà di dominio e di sfruttamento ma per l’essere incaricati di una mis-sione umanitaria ed universale che trascende la propria limitatezza storica e particola-rità territoriale.

Il concetto di ‘Europa’ traccia dunque a prima vista un confine verso l’Oriente e il Selvaggio dell’Africa e del Nuovo Mondo. Ma anche all’interno dello stesso territorio variamente definito come europeo, esso produce una forte gerarchia tra gli spazi. Se-condo Gerard Delanty “l’identità nazionale, sin dall’età dei lumi, rappresenta un’ideologia universalista che paradossalmente richiede un appello all’Europa per legittimare il particolarismo nazionale” (1999:272). Se la supremazia europea nel mondo serve ad affermare i veri diritti e valori dell’umanità rivelati dalla Ragione contro le forze oscure dell’ignoranza e dell’arretratezza, il primato della propria na-zione serve ad affermare i veri valori europei contro le forze dell’oscurantismo dina-stico e religioso spesso imputato alla nazione o all’impero confinante. Nessuna narra-zione nazionale nel continente ha rinunciato a reclamare alla propria comunità un qualche primato europeo o quanto meno una particolare autenticità europea, soprattut-to rispetto ai suoi diretti vicini.

Nel contesto della nazionalizzazione europea, il progresso ha dunque notevolmente contribuito a immaginare, includere o escludere, quindi a organizzare e delimitare, gli spazi interni. In genere, il discorso dominante prevede un tasso calante di ‘europeici-tà’ da Ovest a Est: i francesi si reputano più europei dei tedeschi, questi più dei cechi, quest’altri a loro volta si pensano più europei degli slovacchi, gli slovacchi più dei ruteni, questi più dei russi, i russi più dei turchi e dei ceceni, e così via. L’asse tra O-vest ed Est è però solo la direttrice principale di una gerarchia che viene riprodotta, con variazioni infinite, in più direzioni e una moltitudine di situazioni. Si manifesta, anch’essa, con esemplare chiarezza proprio là dove si intendono difendere, tracciare o spostare i confini.

L’opera civilizzatrice e acculturatrice conferisce infatti legittimità alla conquista terri-toriale e alla omologazione culturale del territorio compreso entro i nuovi confini al-largati. Il progresso diventa un argomento frequentato specie laddove la stirpe manca di un presunto insediamento territoriale antico, impedendo alla nazione-popolo di richiamarsi a quel primato di presenza sopra discusso che altrimenti sarebbe ritenuto giustificazione in sé evidente della propria sovranità.

L’Alto Adige / Südtirol fornisce alcune prove di questo ‘diritto progressivo’ alla con-quista. Nell’immaginario nazionalista tedesco il guerriero bavarese, calato a Sud del Brennero nel primo medioevo per trasformarsi in contadino tirolese, ha per sempre conquistato al popolo germanico questa terra, un Kulturboden modellato a propria immagine dall’incessante “lavoro tedesco” di bonifica delle valli e di conquista della montagna all’economia rurale (Wopfner 1921:5-38). Nell’immaginario della contro-parte, il vittorioso popolo italico, sempre identico ai romani, dopo un millennio e più di assenza ha invece poi risalito un’altra volta il corso dell’Adige per portare alle arre-trate e cafonesche tribù tirolesi il “vanto ed orgoglio del lavoro italiano” (Vacante 1963:186), ossia la civiltà industriale, l’urbanità, il progresso. Come hanno chiarito Bergonzi e Heiss, oggi tocca nuovamente al ceto dirigente di lingua tedesca ostentare superiore modernità coniugando, in versione glocal, la tradizione con l’internet e l’impresa flessibile della new economy.

Questo appena citato non è che uno degli innumerevoli casi emersi dai lavori recenti. Ci si imbatte continuamente in tali esempi studiando i confini nazionali più contesi. Con una certa idea di progresso si deve confrontare la Slavia veneta appena incorpo-rata nell’Italia liberale, come ha appurato Rolf Wörsdöfer; mentre il ruralismo dei partigiani sloveni non sarà estraneo, a sua volta, a una concezione herderiana di popo-lo slavo, democratico in quanto contadino coltivatore del suolo. L’opera culturale addotta a giustificazione dello spostamenti di confini è, poi, uno dei temi centrali del-lo storico francese Thomas Terrier, che ha fatto ricerca sulla Posnania. Sempre secon-do quel paradigma interpretativo, il lavoro efficiente e la Bildung, il livello di eleva-zione culturale, legittimano, anzi nobilitano, la presenza redentrice dei tedeschi in un Est europeo altrimenti letargico e arretrato. Ed è il Lud Polski, il ‘Lavoro polacco’, a conquistare, a sua volta, in nome dell’avanzamento economico e culturale una parte consistente della società civile posnana alla lotta nazionale della controparte. La Rus-sia, diceva Mazzini, deve mollare la presa sui fratelli slavi più europei e quindi più civili di lei, ma deve bensì allargare i propri confini verso est per civilizzare l’Asia. Già per l’epoca pre-nazionale, ma post-rinascimentale, Anastasia Stouraiti vede all’opera tale paradigma nell’immagine che i Veneziani si costruivano dei territori conquistati in Morea. L’Europa del progresso, insomma, è una e divisibile.

2. Il carattere ambiguo delle frontiere

Una volta tracciati e riconosciuti, i confini diverrebbero un fatto di minore interesse se rispondessero davvero a quella valenza inequivocabile ed irrevocabile che è stata loro attribuita dalle dottrine nazionali. In realtà, essi rappresentano un caso difficilmente ‘risolubile’ nei termini di una definizione logica chiusa. Rimangono dei costrutti poli-valenti e potenzialmente labili cui occorre continua conferma. Tale bisogno, com’è ovvio, si accresce drammaticamente in momenti di crisi politica o diplomatica, di guerra, di violenza, di traumi collettivi. In simili situazioni, lo Stato-nazione sovente fatica o non riesce affatto a integrare le divergenti istanze collettive e identitarie entro i propri confini. Ma anche nella quotidianità dei tempi tranquilli gli scarti tra il confi-ne statale ufficiale e il confine nazionale immaginario si avvertono quando si scende al livello della rappresentazione autobiografica della ‘gente di frontiera’. Da dove nasce la polivalenza dei confini, il loro momento calmierante che repentinamente può precipitare in un altro, mobilitante? E perché è così difficile tracciare una linea di de-marcazione tra due nazioni senza essere rosi dal dubbio che quel tracciato potrebbe anche non valere ‘per sempre’?

2.1. Il confine come segno della presenza indelebile dell’Altro

Studiando attentamente i discorsi che si fanno sui confini, ci si accorge quanto essen-ziale sia la legittimante presenza dell’Altro. Che finisce con l’essere Altro escluso e Altro incluso allo stesso tempo. Il confine, infatti, si svuoterebbe di senso se fosse davvero in grado di estinguere quella presenza; ne ha invece disperato bisogno per regalare un contorno al Noi. L’Altro, ha sottolineato anche Zygmunt Bauman, assolve dunque a una funzione importante, che rimane tuttavia ambigua. Nel conferire, con il limite, una certezza in più al Noi nazionale, viene al contempo in esso incorporato come una sorta di ‘straniero interno’ che esercita un effetto erosivo su quella stessa certezza. Tale paradosso si manifesta con particolare vigore nelle aree di confine. O-gni linea di demarcazione infatti è una linea comune, la quale quindi unisce ciò che separa. Questa duplicità è ben compresa, ad esempio, nel verbo tedesco teilen che significa dividere e nel contempo condividere, mentre – anche questo è importante – la traduzione letterale di ‘con-dividere’ è mitteilen, comunicare. Infatti, ogni (con)divisione crea e presuppone una qualche comunicazione – con le gesta, le parole, gli abbracci, le armi – tra dei separati o tra chi si sta per separare.

Simili riflessioni dialettiche, che a qualcuno appariranno fin troppo astratte, non man-cano di una ricca casistica concreta. Il confine tra Germania e Francia, ad esempio, lungo l’Otto e il Novecento è stato assoggettato a politiche di inimicizia e politiche di amicizia, a retoriche di guerra e retoriche di pace. In tutti e due i casi si è trattato di una comunicazione bidirezionale nei termini di una divisione condivisa che aveva il senso di confermare il valore trascendente della frontiera tra il Noi e l’Altro. È, que-sta, solo la macroscopica comunione creata, a livello nazionale e internazionale, con i gas tossici e le artiglierie e poi con l’ecumenica celebrazione degli eroi caduti per la pace perpetua, di un confine più volte tracciato col sangue. E all’interno di questi ter-ritori di confine i paradossi del rapporto tra il Noi e l’Altro si riverberano anche sull’ambivalenza dei simboli. Ad esempio ha mostrato Günter Riederer come all’epoca della dominazione prussiana la coiffe, ‘tipico’ fazzoletto copricapo delle donne alsaziane, è segno di identità regionale e alsazianità sia nell’immaginario fran-cese sia nell’immaginario tedesco, rappresentando quindi un’immagine divisa e al contempo condivisa della regione. Paradossalmente, in quanto simbolo dell’identità regionale, la coiffe è reclamata e sottintesa come prova sia della francesità sia della germanicità della regione stessa. Viene esibita con chiaro intento simbolico nelle ma-nifestazioni filofrancesi come nei raduni indetti dai filo monarchici per salutare l’imperatore tedesco in visita.

Né può sorprendere se tra i nazionalisti di molte aree di confine sia particolarmente ricorrente un’interpretazione in apparenza paradossale dell’Altro. In molti testi la sua presenza in un certo passaggio sembra pienamente, e anzi teneramente, integrata nell’immagine indelebile della ‘propria’ terra, quale carattere qualificante della sua inconfondibile unicità; mentre in un altro, solo qualche riga più in là, la stessa presen-za viene descritta come insidiosa, traditrice, se non spionistica e funzionale al Male d’oltre frontiera; in altri testi ancora viene del tutto negletta, come se nessun suo se-gno dovesse turbare l’omogeneità di un paesaggio in cui ogni pietra deve respirare l’aria di una sola cultura e di una sola nazionalità. Per i nazionalisti tedeschi sulla frontiera orientale, i polacchi sono l’indispensabile pezzo d’appoggio della propria presenza acculturatrice. Rappresentano dunque non solo l’Altro ostile bensì, anche, una folcloristica arretratezza e come tale il banco di prova della germanicità regionale. Similmente, per un nazionalista tedesco sulla frontiera settentrionale come Ernst Schröder proprio l’ambigua circostanza che “la lingua della Heimat … qui ha sempre il suono della coinè danese”, ossia il fatto che ‘germanicità’ e ‘danesità’ si ‘mischino’ in modo indistinguibile nel carattere della regione, ha giustamente contribuito a radi-calizzare le istanze nazionalistiche creando “un germanesimo di confine … che ha coltivato il pensiero nazionale nella sua forma più pura” (Schröder 1933: 9 e 39).

Diventa allora comprensibile come i nazionalisti di quelle aree possano esprimere talvolta terrore davanti all’idea di dover migrare o essere inglobati in ‘madrepatria’ oppure, quando già vi appartengono, perplessità sull’ipotesi di un ulteriore sposta-mento dei confini verso l’esterno. L’idea di vivere tra soli connazionali li inquieta, poiché essere gente di confine è parso loro da sempre la vera essenza della propria identità nazionale. Si crea qui, nell’area di confine, un rapporto conflittuale ma inti-mo, tanto insolubile quanto irrinunciabile, con l’Altro. Come per il propagandista nazista locale Asmus von der Heide, che paventa “la fine di ogni autentica vita popo-lare in questa nostra Heimat” nel caso lo Schleswig settentrionale cessasse, per inglo-bamento nel Reich, di essere area di confine (1937: 20). E come nella poesia del sudti-rolese Hubert Mumelter che, dopo aver optato per il Reich di Hitler, compone una bellissima poesia d’addio, intitolata Letzter Herbst, ‘Ultimo autunno’ (2000: 91-92). Il suo essere tedesco, questo è il succo della composizione poetica, significa essere uomo di confine, di un confine segnato dall’ulivo, dal fico, dal cipresso, di segni del Sud. “Non siamo forse figli di un confine dove, inconciliabilmente conciliati, si toc-cano eternamente le fronti dell’Occidente?” Sradicatemi da qui, dove sono stato tra le “sentinelle segrete dei lidi germanici contro le maree dell’immensità”, e reimpianta-temi a Monaco o a Berlino, e quasi quasi cesserò di essere un tedesco. Questo sembra volerci dire in sostanza Mumelter.

Il compito precipuo e perpetuo dello Stato-nazione, ha sostenuto ancora Bauman, non è tanto quello di tenere a bada il nemico quanto quello di affrontare il problema dello straniero interno. E’ questo il dubito ergo sum della Nazione. I confini danno una forma concreta e insieme immaginaria a questa tanto dubitativa quanto indispensabile ritualità di auto-accertamento.

2.2. Gli scarti tra frontiera statale e frontiera immaginaria

Nella concreta evoluzione storica, attorno ai confini si confondono e si sovrappongo-no una molteplicità di processi identificativi personali, locali, regionali, religiosi, ide-ologici, etnici e nazionali, che rendono il quadro sempre e comunque polivalente e dinamico. Eppure, si obietterà, esistono dei confini univoci. Il tracciato di un confine di Stato possiede delle coordinate fisiche e geografiche ben precise. I corpi delle per-sone che si muovono all’interno e lungo i confini di Stato, e li attraversano, hanno contorni fisici chiari e identificanti. Nel presente contesto non è comunque in questio-ne l’essenza di tali confini. In questione è la certezza dei significati che ad essi ven-gono attribuiti.

Si tratta di un problema generale, dai molteplici aspetti di rilevanza storica, sociologi-ca, antropologica e psicologica. Sarà dunque bene concentrarsi sul tema posto all’inizio, che è quello dei confini nazionali. In quale rapporto stanno i confini nazio-nali con le persone, e in quale con i confini geografici dello Stato? Conferiscono quei confini, palpabili e certi, un contorno chiaro e univoco alla Nazione? E’ questa la do-manda a cui l’ultimo paragrafo tenterà una risposta, in base, ancora, agli studi sulle aree di confine.

Dopo le grandi religioni, l’idea di nazione è forse l’ideologia più potente. Nell’idea di Anderson è l’immaginazione dei singoli a creare una comunità nazionale nella misura in cui questi stessi singoli si sentono ad essa appartenenti. In tal modo, quello nazio-nale è diventato uno dei connotati principali attraverso cui i singoli identificano il proprio Io. Non è tuttavia riuscito a diventare connotato esclusivo, nella persona con-tinuano a sovrapporsi identità multiple. Queste appaiono in genere ben compatibili tra di loro, e attivabili a seconda del contesto. Che stia in primo piano oppure rimanga sul fondo, il connotato nazionale di per sé pare raramente messo in dubbio. Eppure, le aree di confine conoscono molti esempi in cui lo stesso connotato nazionale delle persone vacilla.

Quando in quelle aree si sono verificati guerre e scontri politici traumatici, hanno so-vente prodotto forti lacerazioni interiori riguardanti l’auto-identificazione nazionale dei singoli. Nel Sudtirolo delle Opzioni, per esempio, l’essere tedesco, ideologica-mente costruito sulla fedeltà al sangue e al suolo, al Heimatboden e al Volkstum, è stato lacerato dalla scelta secca a cui ognuno era chiamato tra le due lealtà che fino a quel momento erano parse come due caratteristiche inseparabili di una stessa identità. Simili storie si potrebbero presumibilmente raccontare di tutte le aree di confine, e non solo, che hanno subito conflitti nazionali virulenti o sono state teatro di una guer-ra tra nazioni.

Anche in tempi di pace, tuttavia, molta ‘gente di frontiera’ non riesce, o rifiuta, di attribuire un significato nazionale esclusivo alla propria biografia. “Io non mi sento né di una parte, né dell’altra”, dice una delle persone intervistate dall’antropologa Lapic-cirella Zingari lungo le frontiere franco-svizzera e franco-italiana (2004: 107). E un’altra mette la storia in questi termini: “noi, fino al 1860, eravamo italiani. Dopo il 1860 si è diventati francesi, tutto qui” (ivi). Chi e cosa è quel Noi, quella collettività o comunità cui si sente appartenere e da cui si sente connotata la persona intervistata? Una comunità così potente da essere immaginata identica a sé stessa da almeno due secoli, senza coincidere né con la nazione italiana né con quella francese? È la ‘gente frontaliera’, un groviglio imprecisabile di attraversamenti biografici e identità fami-gliari, locali e regionali, che non si lascia ricondurre in nessun modo a un ‘o di qua o di là’ dal confine nazionale. In questo caso la pretesa del monopolio nazionale sulla persona non viene solo rimossa ad un determinato piano gerarchico tra le varie auto-rappresentazioni, da dove può essere attivata nelle occasioni dell’alzabandiera, del viaggio all’estero, della partita di calcio o alla vista dell’Uomo Nero. Piuttosto, qui, lungo la frontiera, quella richiesta è sperimentata come inconciliabile con il vissuto quotidiano e la sua rappresentazione storico biografica. I confini pongono dunque, anche in questo caso, un limite alla pretesa totalizzante della Nazione. Lungo il confi-ne di Stato e dentro le persone, il confine della Nazione diventa una linea malleabile e fluida. Anzi, questa malleabilità e fluidità può essere tanto più avvertita quanto più perentorio, fisicamente indelebile, arbitrario e calato dall’alto appare il confine geo-grafico dello Stato.

La divaricazione tra i confini geografici dello Stato-nazione e i confini della Nazione intesa come comunità immaginata riguarda comunque non solo le auto-rappresentazioni dell’Io. Esso concerne, anche, le rappresentazioni collettive. Credo che difficilmente uno Stato-nazione possa assorbire in sé tutti i significati e attributi della nazione di cui pretende essere il rappresentante istituzionale. Vuoi per eccesso vuoi per difetto, vuoi per tutti e due, i suoi confini politico geografici spesso non rie-scono a conferire un contorno preciso alla Nazione immaginata.

Come ha fatto presente Serrier, nella Posnania del’Ottocento si è verificata una diva-ricazione tanto forte tra confine statale e politico e confine immaginario da impedire una nazionalizzazione di questa frontiera da parte del Kaiserreich. Il potere politico ha fatto di tutto per trasformare o far apparire la Posnania come una provincia tedesca, ma si è al contempo contraddetto nel motivare la propria sovranità con la missione di dover redimere quelle popolazioni dal letargo economico e culturale tipico dei polac-chi. In tal modo, nell’immaginario della Germania profonda il vero confine tra Ovest ed Est, tra Germania e Polonia, tra tedeschi e slavi, e tra progresso e arretratezza, è rimasto collocato da qualche parte incerta e fluttuante, spostata comunque verso l’interno, lontano dai confini esterni dello Stato. E anche all’interno della provincia, per i tedeschi autoctoni ‘la Polonia’ è sempre continuata a collocarsi al di là del fiume Odra, slabbrando, quindi, ampiamente all’interno della Prussia e poi dello Stato-nazione tedesco. Mentre per i tedeschi venuti da fuori i polacchi costituivano, grazie alla loro presunta arretratezza, una legittimazione irrinunciabile della propria presen-za. Per questi stessi polacchi, infine, lo straniero usurpatore era motivo, oltre che di contrasto, anche di distinzione in termini di superiorità dai fratelli connazionali, co-stretti a vivere in condizioni di sottosviluppo sotto il giogo del regime zarista.

Si potrebbero citare altri esempi ancora di un dentro/fuori immaginario incerto e geo-graficamente divaricato rispetto al tracciato del confine di Stato. La patriottica Alsazia vive, nella famosa Nazione del citoyen, con il sottile sospetto dell’infedele che va messo a continua prova di francesità. Il confine tra Francia e Germania è senza dubbio il Reno, ma il ‘vero’ confine tra i Weiß e i Blanc non corre forse un poco, o anche, lungo lo spartiacque dei Vosgi? Naturalmente no, forse si, chissà: il confine immagi-nato, per quanto sottilmente e lontano dai discorsi ufficiali, rimane incerto e fluido persino qui. Senza poi parlare di aree come l’Alto Adige, dove l’ostinata esclamazio-ne ‘ma siamo in Italia!’ del turista milanese dei decenni passati si infrangeva davanti alla chiara sensazione di un Loro altrettanto ostinatamente, e ostentatamente, diverso dal Noi del milanese e dalla sua vita ‘laggiù in Italia’.

In fin dei conti, anche i gradienti spaziali lungo l’asse del progresso, rinvenibili all’interno di ogni nazione, confermano la fluidità delle frontiere immaginate. Non è, forse, stata non tanto Gesù quanto l’Italia, la nazione missionaria della civiltà e del progresso, a essersi fermata ad Eboli? Non costituisce quella rappresentazione del Mezzogiorno profondo come spazio fuori dal tempo, di un mondo contadino che si rifiuta di abiurare alle sue oscure magie e superstizioni per inquadrarsi nell’esercito nazionale del progresso, un confine interno che marchia un’insenatura dentro i limiti geografici dello Stato di una diversità e di un’arretratezza levantine? O, viceversa, nel primo discorso leghista, non viene capovolto lo stesso discorso per identificare nel nome dell’Italia proprio quei connotati di arretratezza che avrebbero legittimato, all’insegna di un più autentico europeismo, l’erezione di nuove frontiere amministra-tive, se non persino di un nuovo Stato-nazione?

Per lunghi tratti di storia, queste divaricazioni possono apparire contorni folcloristici senza particolare significato politico attuale. Eppure, sono sempre indicative di un potenziale di instabilità del discorso nazionale, che un giorno potrebbe farsi valere e irrompere nello scenario politico. Ecco perché il lavorio attorno alla legittimazione dei confini nazionali, che è un lavorio attorno alla legittimità della Nazione stessa, appare irrinunciabile e insieme inconcludente finché le nazioni esisteranno.

3. Conclusione

Studiare l’emergere dei confini nazionali come un percorso storico teleologico, come il compimento necessario di uno stato d’equilibrio definitivo, vorrebbe dire studiare male i confini facendo l’apologia dei loro apologeti. Qui si è cercato di avvicinare la questione con gli strumenti di uno storico che attribuisce a ogni fenomeno scindibile nel tempo una durata soltanto transitoria. Questa non è una differenza da poco. Sap-piamo quanto incisivamente l’attesa, il terrore anzi, della propria fine segni la costru-zione dell’identità personale, renda incerto il suo preciso contorno durante la vita e induca a incaricare tale vita di valenze trascendenti, religiose e non. Ebbene, non si vede perché dovrebbe essere diverso per gli Io, o i Noi, collettivi. Nei discorsi e nei riti della Nazione, la continua messa in guardia da minacce esterne e da insufficiente immunizzazione e compattezza interna, e la glorificazione degli eroi e dei valori uni-versali che la Nazione interpreta, costituiscono riti di auto-accertamento che rassicu-rano sull’essere in una vita a cui si possa attribuire un senso che trascenda la propria, tanto avvertita quanto taciuta, mortalità. In tutto questo, i confini hanno un ruolo importante. Nell’intenzione di chi li traccia dovrebbero contornare in modo chiaro e definitivo, ‘per sempre’, il corpo fisico territoriale della Nazione. Darle, insomma, un limite nello spazio per proiettarla dalla ‘notte dei tempi’ verso un futuro senza limiti apparenti.

L’erezione dei confini nazionali è segnato da questa idea di radicamento fuori tempo storico, in un legame primitivo e naturale della comunità con il suolo. Da qui si dedu-ce un ‘diritto naturale’ alla precedenza nell’insediamento territoriale. Ma, nel dubbio della propria mortalità, per dare una senso alla Nazione essa deve pure compiere una missione che la trascende. Deve farsi carico del pieno dispiegamento e universale della umanità (come la chiamava Herder), di cui l’Europa, nell’idea dell’illuminismo e del post-illuminismo, è l’alfiere. Di qui il ‘diritto storico’ alla conquista di territori che la Nazione ha anzi il dovere di togliere alle forze oscure e reazionarie, che si sono impadronite dei primitivi incoscienti e incivili e degli imperi dispotici e oscurantisti, camuffandosi perfidamente anche nelle vesti delle nazioni confinanti e concorrenti. Diritto di precedenza sul territorio e diritto di conquista civilizzatrice sono le due assi portanti dei discorsi legittimanti l’erezione e lo spostamento dei confini.

Un Noi nazionale sconfinato sarebbe tuttavia al contempo un Noi indistinguibile e pertanto finito, ragione per cui i confini sono essenziali per la creazione e manuten-zione di questo soggetto collettivo. Rimane tuttavia imperfetta e insidiosa quella cer-tezza che i confini dovrebbero conferire al Noi nazionale. Così come l’Io personale viene immaginato attraverso la traccia (il ‘Mio’) che esso lascia sul ‘territorio’ circo-stante o Altro da sé, anche il Noi collettivo deve specchiarsi nell’Altro o diverso da sé per prendere una forma. Il confine produce quindi una inclusione dell’escludendo, un tutt’uno contraddittorio che richiede una continua rielaborazione, più o meno intensa, che va ben oltre l’inscrizione o la modifica di confini statali nel territorio.

Divisione, condivisione e comunicazione sono pertanto, io credo, i tre concetti più importanti da tenere presenti nell’analisi delle vicende storiche dei confini nazionali. La triade sta per una molteplicità di significati riuniti nel concetto di confine che da una parte rappresenta una grande risorsa politica mobilitante, mentre dall’altra ne co-stituisce una perenne minaccia. Essa continua a sovvertire o almeno a rendere labile l’univocità del dentro/fuori prefigurato dal discorso politico ufficiale. Talvolta, infatti, si crea uno scarto notevole tra il confine di Stato fisico geografico ufficialmente trac-ciato, che pretende di essere nettamente esclusivo, e un confine mentale che continua a fluttuare, più in qua o più in là, tra il Noi e l’Altro immaginari. L’eccezionale stabi-lità e la pace regnanti ormai da secoli lungo taluni (a dire il vero: pochi) confini na-zionali non devono trarre in inganno sulla contingenza e sul carattere storico, e quindi transitorio, delle nazioni e delle loro reciproche delimitazioni.

I paradossi del confine nazionale tradiscono infatti un’insicurezza di fondo, una diffi-coltà irrisolta e forse irresolubile dell’identificarsi con la nazione in termini totaliz-zanti. E non si tratta, secondo me, di una certa liquefazione dell’identità nazionale, altrimenti appagante e solida, verso i bordi geografici, dove la comunità nazionale si espone al promiscuo contatto con l’Altro. Piuttosto, i confini rappresentano un simbo-lo particolarmente incisivo del bilico tra inclusione ed esclusione dell’Altro che tiene in sospeso, e pertanto in vita, l’identità nazionale tout court. Sembra trattarsi di un elemento costitutivo e generale dell’identità nazionale che l’area di confine può solo portare in particolare rilievo.

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