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Ruba Salih

Università di Bologna
Che “genere” di confini? Mobilità, identità e strategie di cittadinanza tra il Mediterraneo e l’Europa
Introduzione

La consapevolezza dell’intreccio tra locale e globale nei processi culturali, economici e politici ha reso urgente una rilettura, oltre che di alcuni dei paradigmi stessi delle scienze sociali, anche dei modi di indagare i fenomeni migratori, fino ad un passato non molto remoto studiati ed analizzati pressoché totalmente dal punto di vista degli effetti sul paese di residenza dei migranti, trascurando di analizzare come gli assenti possano essere invero agenti fondamentali di mutamento o di sfida, così come di conservazione o ridefinizione di sfere politiche, socio-culturali ed economiche nelle società da cui sono emigrati e da cui sono, spesso, solo ‘fisicamente assenti’. (Salih, 2003)

Uno degli argomenti cruciali della letteratura su transnazionalismo e diaspora suggerisce infatti che i migranti e gli esiliati sono oggi in grado di creare ovunque essi siano una casa “deterritorializzata”. Spazi e luoghi sono costruiti e plasmati in modo da realizzare case collettive via da casa (Clifford, 1994:308). Perdipiù, lontano dal sentire una lacerazione tra due luoghi, attraverso i legami e le pratiche transnazionali, i migranti sono oggi in grado di legare località distanti in un unico campo sociale, estendendo la loro appartenenza a due o più contesti nazionali o locali.

La globalizzazione ha conferito particolare intensità alla dimensione transnazionale della migrazione, portando con sé mutamenti radicali sia a livello dell’esperienza soggettiva dell’appartenenza culturale, dell’identità e dell’azione politica da parte dei migranti, sia nondimeno, apportando nuova complessità alla natura stessa dell’esclusione delle donne e uomini migranti, le cui cause ed effetti non possono oggi essere compresi se non attraverso una lettura complessa dei loro snodi e articolazioni globali.

A fare da sfondo alla “transnazionalizzazione” delle migrazioni contemporanee vi sarebbe una forte crisi dello stato-nazione, nei suoi aspetti culturali, economici e istituzionali, crisi che a sua volta aprirebbe la strada ad una messa in discussione di quelle “grand narratives” che la modernità europea ha imposto come universali: un’identità unitaria ancorata ad un territorio ed una nazione come chiave d’accesso alla cittadinanza. In un certo senso, il transnazionalismo come dimensione di vita attraverso i confini, nella sua accezione di rifiuto dell’assimilazione o dell’integrazione e, contemporaneamente, come strategia volta a lottare contro, o più spesso, ad arginare gli effetti dell’esclusione e della fortificazione delle barriere, può essere metaforicamente vista come un terzo spazio, dove i soggetti detengono una forma di potere, identificabile proprio in quella resistenza all’integrazione e assimilazione ad una nazione, che costituisce una forma di anomia come fonte di azione sociale e capitale di difficile concettualizzazione per le teorie sociologiche tradizionali (Favell in Vertovec 2001).

Questa relazione si propone di analizzare alcuni dei limiti e potenzialità del “transnazionalismo”, come paradigma dell’attraversamento di barriere e confini, a partire dalla consapevolezza che lo stesso non ha cause ed effetti omogenei sulla totalità delle soggettività migranti. Il presupposto è che al centro di qualsiasi analisi del transnazionalismo e della globalizzazione si deve porre quella che è stata definita come la “geometria del potere della compressione spazio-tempo”(Massey, 1994) e che altre hanno definito come la geografia di genere del potere. (Mahler and Pessar 2001)

Queste definizioni stanno ad indicare le diverse modalità attraverso cui individui e gruppi sociali attraverso il globo sono inseriti nella riformulazione di tempo, spazio e accesso alla mobilità generata dalla globalizzazione.

L’ apologia della fine dello stato, inoltre, pur condivisibile nell’urgenza di produrre categorie e modi di rappresentare i migranti alternativi a quelli classici basati su opposizioni binarie (moderno-tradizionale, occidentale-altro) e su concezioni reificate di identità e cultura, corre tuttavia il rischio di oscurare le relazioni di dominio attraverso cui identità, culture e progetti nazionali si formano e mantengono nel tempo e nello spazio, relazioni di dominio profondamente ancorate alla posizione che i migranti occupano anche in relazione allo stato. Un’analisi che voglia evitare letture apologetiche del fenomeno deve quindi sapere fare luce sulle diverse implicazioni e cause del transnazionalismo come terreno sui cui, contemporaneamente, fioriscono sia nuove istanze di cittadinanza da parte di soggetti che non si riconoscono nella spazi concessi tradizionalmente loro dai contesti nazionali (assimilazionismo o multiculturalismo) ma attraverso cui si assiste alla riproduzione di gerarchie di genere ed economiche su scala globale.

Globalizzazione e crisi degli stati-nazione

Il transnazionalismo viene da più parti letto come espressione palpabile della crisi di luoghi e istituzioni moderne come stato, nazione e i processi culturali che ne hanno accompagnato e sostenuto la creazione. Alcuni sembrano suggerire che il transnazionalismo, spesso inteso come sinonimo della globalizzazione, sia contemporaneamente riflesso e agente di un indebolimento del potere dello stato-nazione. (Kerneay 1991; Appadurai 1991, 1996). Kearney suggerisce che i migranti transnazionali sfuggono il potere dello stato-nazione nell’informare il loro senso di identità collettiva, mentre per Appadurai è tutto il sistema dell’economia culturale globale a costituire un ‘ordine complesso, sovrapposto e disgiunto’ in cui i flussi culturali globali come persone, macchinari, denaro, immagini ed idee si muovono in modo disgiunto generando una realtà colma di fratture. Ed è proprio questa de-territorializzazione di denaro, idee e soggettività che è alla base di una crescente frattura tra stato e nazione, dove la seconda è attraversata e sfidata da una molteplicità di appartenenze.

Eppure, sono in molti a contestare l’idea che gli stati-nazione siano in crisi di sovranità, come è evidenziato dal fatto che in aree del mondo così diverse come l’Asia, gli USA o l’Europa gli stati nazione sembrano attraversare un processo di attadatemento o ridefinizione delle proprie funzioni per affrontare le conseguenze della ristrutturazione economica globale (Ong, 1999, Rouse, 1995, Morris, 1997). In Europa, specialmente per quel che riguarda le politiche migratorie, non solo gli stati nazione sembrano riluttanti a cedere potere e funzioni ad organi sopranazionali, ma essi starebbero adattando i propri ruoli e pratiche in funzione dell’economia globale, non ultimo attraverso la ristrutturazione o lo smantellamento dei sistemi di welfare e attraverso il controllo dei flussi migratori. E’ bene comunque tenere a mente che lo stato non è da considerarsi una entità singola agente in modo razionale, ma piuttosto un insieme di diverse soggetti e competenze, espressione di interessi potenzialmente contrastanti, che possono quindi dare vita a discorsi e pratiche sulla migrazione in contrasto tra loro. (cfr. la recente sentenza della Corte Costituzionale sulla Bossi Fini).

Gli stati di origine dei migranti contribuiscono anch’essi, da parte loro, a creare campi sociali, economici e politici transnazionali, che riflettono una crescente dipendenza di questi ultimi dalle rimesse delle diaspore. In un mondo caratterizzato dalla ristrutturazione economica globale, gli investimenti dei migranti sono essenziali alla sopravvivenza delle economie dei paesi di origine. (Guarnizo e Smith 1998). Dal Marocco alle Filippine, intere economie nazionali paiono sostenute dalle rimesse dei migranti che costituiscono spesso voci economiche di fondamentale importanza nei bilanci nazionali. In questo senso si è parlato anche di stati-nazione deterritorializzati (Basch, Glick-Schiller and Szanton-Blanc 1994). I migranti transnazionali forgiano sfere transnazionali che, pur ponendosi con in relazione dialettica con lo stato e la nazione, sono tuttavia inscritte nei “discorsi” egemonici dei processi di nation-building dei loro paesi di residenza e di origine. Questi ultimi estendono le loro frontiere al di là del loro spazio geografico-territoriale in modo tale da permettere ai soggetti che compongono la nazione di vivere ovunque nel mondo pur rimanendo parte integrante dello Stato.

Il transnazioanlismo è un fenomeno nuovo?

Se da un lato il transnazionalismo sembra essere il paradigma in grado di cogliere nuove sfide e processi che attraversano e fragmentano gli stati, sono in molti diffidare del presunto carattere contemporaneo o recente di tale fenomeno domandandosi se il transnazionalismo non sia invero stato un carattere costante dei movimenti migratori (Sutton 1992; Gledhill 1998). La stessa perplessità accompagna le riflessioni di Stuart Hall sulla globalizzazione, il quale si chiede se gli scienziati sociali non soffrano di un processo di amnesia storica attraverso il quale si convincono che solamente in quanto essi stanno riflettendo su un processo questo sia appena cominciato (1991:20). Ralph Grillo suggerisce che chiunque abbia studiato i fenomeni migratori in diverse parti del mondo negli ultimi trent’anni non può fare a meno di sperimentare una sensazione di déjà vu nel leggere la recente letteratura sulle migrazioni transnazionali. (1998:16). Ed infatti numerosi sono, in Europa come altrove, gli studi che hanno messo in luce gli intensi legami dei migranti coi loro paesi di origine evitando di teorizzare tale fenomeno come interamente nuovo (Werbner 1990; Fog Olwig 1993; Gardner 1995). Nel contesto sudafricano, per esempio, con più di un secolo di migrazioni attraverso le frontiere nazionali dipendenti dall’espansione del capitale industriale e dell’agricoltura ed una ricca e documentata letteratura sulle varie angolature del fenomeno, è diffuso un certo scetticismo sul carattere di novità del transnazionalismo (Crush e Mc Donalds 2000). In ambito europeo, ci basti pensare a come, già tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, molte comunità diasporiche fossero centrali nelle costruzioni di identità nazionali sia nella diaspora che nei paesi di origine (van der Veer 1995). Gli emigranti polacchi, italiani e cinesi negli Stati Uniti per esempio erano tutt’altro che assenti dalle retoriche nazionali e nazionaliste dei paesi di origine dove le coscienze nazionali si venivano formando o rafforzando (Glick-Schiller 1999).

Tuttavia, sebbene il transnazionalismo, inteso come fenomeno che genera reti e legami articolati su lunghe distanze, sia stato una costante nell’epoca precedente la costituzione degli stati-nazione moderni, i legami e le reti contemporanei non solo sono oggi diffusi sull’intero globo, ma sono di natura particolarmente intensa, avvenendo spesso in tempo reale. (Vertovec 1999: 447). L’intensità degli scambi, le nuove modalità delle transazioni, e la molteplicità delle attività sostenute attraverso le frontiere sono quindi alcuni dei caratteri che renderebbero il transnazionalismo contemporaneo un fenomeno nuovo (Portes, Guarnizo and Landolt 1999:219). In un articolo chiarificatore Glick-Schiller nota che ciò che differenzia passate forme di transnazionalismo da quelle odierne sono svariati processi che essa riassume come “la ristrutturazione della accumulazione globale e dell’organizzazione del capitale, modificazioni nelle relazioni tra strutture statali e processi economici globali, e rinnovate concettualizzazioni dello stato-nazione, espresse nelle retoriche di leaders politici, nella letteratura di teorici politici e nei paradigmi degli scienziati sociali. (1999:95).

Nella sua accezione di processo di attraversamento e frantumazione di confini nazionali, il transnazionalismo non sembra costituire un fenomeno interamente nuovo, mentre nuove sono le congiunture e i mutamenti contemporanei in cui prende forma la vita nei migranti contemporanei. La compressione spazio-tempo (Harvey 1989) resa possibile dalle nuove tecnologie di comunicazione e di trasporto (Hannerz 1996; Smith 1998) è un elemento fondamentale che rende i legami transnazionali più intensi, mentre le strategie economiche post-industriali, il sistema flessibile di accumulazione e gli effetti della nuova organizzazione del capitale nel globo fanno della migrazione transnazionale un fenomeno specificamente figlio dell’epoca post-industriale e post-moderna. (Harvey 1989) epoca in cui, donne e uomini migranti sono centrali nella riorganizzazione globale dell’economia e nella crisi dei welfare che l’accompagna (Gledhill 1998). Nel momento in cui il capitale sta procedendo verso una riorganizzazione basata sulla flessibilità e sulla compressione spazio-tempo, i migranti divengo lavoratori flessibili, attori di una economia politica familiare transnazionale, resa urgente dal carattere precario della vita in un “solo paese” che non garantisce più una realizzazione economica, culturale e sociale, nonché l’accesso ai diriti di cittadinanza (Basch et al. 1994; Rouse 1995).

A questo riguardo, è plausibile insinuare il dubbio, come fa Grillo, che il migrante transnazionale non rappresenti altro che una versione globalizzata del gastarbeirter (1998:31), a cui si prospetta uno scenario di sotto-proletarizzazione permanente e clandestina.

Transnazionalismo e cittadinanza di genere

La femminilizzazione della migrazione, con un numero sempre maggiore di donne che attraversano il globo come “domestiche della globalizzazione” (Salazar-Parreňas 2001), per cui l’articolazione della propria vita attraverso più frontiere altro non è se non una strategia di sopravvivenza in un contesto di estrema e crescente precarietà e invisibilità, costituisce forse lo specchio più evidente della complessità e ambivalenza del transnazionalismo. Una analisi che non voglia essere semplicemente celebrativa deve quindi porre al centro della propria riflessione alcune questioni: quali sono gli effetti del transnazionalismo sulla vita delle donne migranti? Quali tipi di relazione di genere si instaurano attraverso le frontiere? Quali sono le implicazioni politiche di questi processi? Come vengono plasmati, costruiti e negoziati i ruoli di genere attraverso le frontiere?

Circa la metà dei migranti sono ormai donne, e nel caso di alcuni paesi (per esempio Filippine, alcuni paesi del Sud America) le donne costituiscono la componente principale della popolazione migrante. E’ necessario tuttavia sottolineare che l’accesso alla mobilità globale non è egualitario. Nei paesi d’origine, solo alcune delle donne hanno la possibilità di emigrare, e nella maggior parte dei casi appartengono ai ceti medio bassi, piuttosto che ai ceti più svantaggiati. La definizione di “domestiche della globalizzazione”, pur correndo il rischio di essenzializzare la varietà di motivi soggettivi e condizioni strutturali che sottendono i movimenti migratori femminili, risulta estremamente efficace per descrivere quello che per molti versi fatto è il filo rosso che lega concettualmente la femminilizzazione dei movimenti migratori alle trasformazioni indotte dalla globalizzazione. Se guardiamo ai paesi di origine vi è un legame strutturale tra la globalizzazione, la femminilizzazione del lavoro salariato ed i movimenti migratori. In molti dei paesi di emigrazione, le donne dei ceti medio-bassi sono in gran parte impiegate nelle grandi multinazionali occidentali che hanno attuato una de-territorializzazione dei propri processi produttivi verso quei paesi in cui il costo del lavoro è estremamente basso e la manodopera è priva di diritti. Si tratta infatti di lavoro precario e flessibile in quelle aziende multinazionali che fabbricano o trasformano i manufatti che oggi si consumano comunemente nei Paesi del Nord del mondo.

La dislocazione dei processi produttivi nei paesi del terzo mondo non si traduce tuttavia in una diminuzione delle emigrazioni, come sostengono alcune teorie. Al contrario, come ha eloquentemente mostrato Saskia Sassen, le grandi metropoli del nord del mondo divengono sempre più “globali” grazie all’espansione dei sistemi finanziari, economici, legali e bancari che servono a sostenere un’economia globale. E’ nelle principali metropoli del Nord del mondo, (ma non solo) che cresce in maggior misura il bisogno di una manodopera migrante e a basso costo che possa svolgere il lavoro di cura e di riproduzione che permette ad un crescente numero di professionisti e professioniste di poter sostenere le loro attività, i loro ruoli di manager della globalizzazione, mantenendo inalterato il loro standard di vita.

La crescente privatizzazione dei servizi pubblici di sostegno al lavoro di cura e riproduzione vede le donne migranti entrare massicciamente in questa sfera privata, quasi a supplire le carenze di uno stato sociale sempre più dissanguato. In un’ ottica transnazionale, tuttavia, tale sfera privata costituisce lo spazio pubblico (pur ambivalente) delle donne migranti nel senso che è attraverso i loro ruoli produttivi e riproduttivi nelle sfere private delle famiglie europee che esse, attraverso le loro rimesse, contribuiscono in modo fondamentale non solo alla sopravvivenza delle loro famiglie ma, in taluni casi, a quella delle economie nazionali dei loro paesi d’origine.[1 ]

Le “domestiche della globalizzazione” si trovano ad incarnare contemporaneamente il ruolo di nutrici, che le vorrebbe a casa accanto al focolare domestico, e quello di migranti transnazionali, che invece le costringe via da casa, seppur a svolgere un insostituibile ruolo produttivo e riproduttivo di cruciale importanza per la famiglia e il paese. La sfera di riproduzione e di cura si che si va sempre più internazionalizzando secondo gerarchie di genere e di classe impone alle donne migranti una riorganizzazione transnazionale delle dinamiche di riproduzione della proprie famiglie di origine, con altissimi costi in termini psicologici, emotivi e sociali. In questo contesto, le sfere sociali, economiche e culturali transnazionali che pur emergono con forza nella diaspora delle donne migranti non danno origine solo ed esclusivamente a strategie di resistenza o di sovvertimento delle gerarchie di genere e di classe o di disintegrazione delle frontiere, come vuole certa letteratura sulla migrazione transnazionale soprattutto di stampo nordamericano. Né il transnazionalismo può essere analizzate come insieme di pratiche forgianti nuove concezioni e pratiche della cittadinanza, multiculturali o transnazionali, nei paesi di accoglienza. Le “domestiche della globalizzazione” sperimentano infatti una mobilità di classe estremamente contraddittoria, dal momento che un avanzamento di status per sé e per la propria famiglia nel paese di origine è realizzabile solo a costo della rinuncia a qualsivoglia forma di avanzamento nella scala sociale del paese di accoglienza, dove le migranti sono relegate ad una identità, quella di domestiche, ed a un settore, quello di riproduzione e di cura, che forse più di ogni altro svela le ambivalenze, quando non le aporie, del discorso e della ‘pratica’ della cittadinanza in occidente, mettendo inoltre a nudo il fallimento di un altro grande paradigma che ha accompagnato lo sviluppo delle società occidentali: quello dell’uguaglianza tra i generi nella sfera pubblica e privata.

Cittadinanza post-nazionale?

Avendo fin qui delineato le implicazioni più squisitamente materiali e di genere della dimensione transnazionale della vita dei migranti, vorrei concludere ponendo l’accento sul secondo aspetto a cui accennavo nell’introduzione, ossia la portata di sfida che il transnazionalismo, col suo potere destrutturante della concezione nazionale della cittadinanza, porta inevitabilmente con sé. Una delle sfide cruciali che la migrazione transnazionale impone infatti è quella di come ridisegnare e riconcettualizzare le classiche nozioni di cittadinanza e appartenenza basate sulla omogeneità, universalità e territorialità della nazione come presupposto e base fondamentale dello stato. I migranti non solo non si adeguano al paradigma della cittadinanza come forma di assimilazione ad un territorio, stato comunità o nazione ma, attraverso intensi movimenti, pratiche politiche, così come tramite il fluire di oggetti, di denaro e di idee che rendono possibile il mantenimento di diverse e molteplici appartenenze e lealtà, essi propongono e impongono un superamento della logica dell’integrazione nazionale. Lungi dall’essere interamente nuova, tuttavia, la sfida transnazionale si pone in continuità e accentua la portata critica del pensiero e dei movimenti femministi, dove particolarmente illuminante è stata quella delle intellettuali nere o asiatiche, americane e europee, che hanno da tempo contestato la presunta omogeneità e universalità delle retoriche nazionali, svelandone la natura profondamente etnocentrica, di classe e di genere (Brah, 1996, Young 1990; Yuval-Davis e Werbner 1999). La novità è che le incrinature del discorso nazionale si arricchiscono di complessità, ora che le differenze di genere e di classe sono attraversate e plasmate da differenze culturali i cui processi di formazione e negoziazione, lontano dall’essere ancorati ad un territorio, si estendono lungo una molteplicità di spazi geografici e simbolici.

Se nella retorica multiculturale i migranti sono visti come portatori di “culture” e “identità”, quando non di “tradizioni”, statiche e chiuse su se stesse, una sorta di ‘bagaglio a mano’ che donne e uomini migranti si portano appresso nel viaggio verso la modernità, l’emergere di una maggiore consapevolezza circa la dimensione transnazionale dei processi migratori ha contribuito a svelare la complessità dei processi identitari e culturali. Il moderno paradigma che vedeva il migrante come lacerato “tra due culture”, e intrappolato nella dicotomia assimilazione – esclusione, ha ceduto il posto ad una figura del migrante e del rifugiato come espressione di un meticciato se non di un cosmopolitismo progressista, dal basso (Vertovec 2001 ) il quale, lungi dal vincolarsi ad un singolo progetto nazionale o culturale attinge da fonti spazialmente e culturalmente plurali. Centrali nei processi identitari emergono quindi i percorsi di adattamento e negoziazione che simboli, idee, tratti culturali e senso di appartenenza attraversano nel processo di dispersione e rilocalizzazione, processo che implica un incessante lavorio di mediazione tra affiliazioni complesse e appartenenze multiple.

Uno dei terreni più fertili di analisi in questo senso è quello delle giovani generazioni di musulmani, spesso giovani nati in Europa ma che si identificano nei modi più svariati con la cultura e/o la religione islamica dei genitori e delle famiglie di origine. Mentre l’identità e politica di questi ultimi ruota spesso intorno a tradizioni e rituali legati al paese o comunità di origine, l’esperienza della nuove generazioni è stata definita come “neo-comunitaria”, per sottolineare come gli strumenti di identificazione culturali e identitari di queste nuove soggettività si pongano in un rapporto dialettico di continuità e rottura rispetto all’esperienza delle generazioni precedenti. L’Islam dei giovani è spesso una via di uscita, una specie di terza via, rispetto alle altre strade che hanno di fronte, la chiusura in gruppi etnici o comunità, o l’assimilazione. (Khilani 1998).

Agli occhi di molti giovani musulmani europei lo stato-nazione è spesso una struttura che esclude, marginalizza o, tuttalpiù, contiene la differenza, attraverso una politica della cittadinanza e dei diritti parziale, ma anche a causa dell’incapacità dei discorsi multiculturalisti o assimilazionisti di cogliere la complessa natura delle nuove identità emergenti. Questi persistono nel cristallizzare l’Islam come espressione di un’alterità permanente e statica offrendo, da un lato l’assimilazione culturale, ma meno spesso politica ed economica, alla comunità nazionale oppure riconoscendone la “differenza” attraverso una logica che, tuttavia, confina l’espressione politica e identitaria nell’ambito della sfera della politica delle “minoranze”. In questo contesto, l’abbandono dell’ambito nazionale come principale o unico terreno di azione della “politica dell’identità” è una delle sfide che le seconde generazioni portano con sé (Salih, 2004).

Queste nuove soggettività emergenti, spesso portatrici di domande di riconoscimento non tanto e semplicemente di “differenze”, ma di nuove concezioni di universalismo e di pluralismo, rendono urgente un ripensamento della cittadinanza classica. I giovani, in quanto musulmani e europei, si pongono in un ottica di “sconfinamento” rispetto ad una tradizione, quella dello stato-nazione, che opera secondo opposizioni binarie quali pubblico-privato, maggioranza-minoranza, univeralismo-differenza che mirano a limitare l’espressione di affiliazioni e identità transnazionali concepite come estranee e pericolose, e a contenere l’alterità all’interno di solide frontiere, all’interno delle quali, sole, si può aspirare ad una certa legittimità.

Bibliografia

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NOTE

[1] Si veda a questo proposito il volume di Rachel Salazar Parrenas “Servants of Globalization”. Attraverso un’indagine etnografica che scava nelle dinamiche migratorie delle donne filippine in due “città globali” come Roma e Los Angeles, Parrenas mette in luce con chiarezza i processi che contraddistinguono la vita di questa forza lavoro migrante femminile, ricostruendo le cause ed effetti di quella condizione di quasi-cittadinanza, o “cittadinanza parziale”, a cui le donne filippine sono relegate. Rappresentate come “eroine” dal proprio stato di origine, a partire dal cruciale ruolo che esse svolgono nel sostenere l’economia nazionale attraverso le loro rimesse, esse non solo si ritrovano “orfane” della cittadinanza di origine, ma raramente hanno accesso a reali diritti di cittadinanza anche nei paesi di emigrazione, nei quali sono piuttosto soggette alle dinamiche flessibili di un mercato del lavoro, quello di riproduzione e di cura, specchio dei processi di ristrutturazione dei welfare imposte dalla globalizzazione e dal neo-liberismo. Non a caso Parrenas definisce le migranti/domestiche della globalizzazione come “prodotti” e “merci” della globalizzazione , la cui esportazione, al pari di quella degli altri manufatti, genera valore aggiunto sia al paese di origine che a quelli di destinazione.