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Convegno Annuale della SISSCO Siena, 9-11 novembre 2000

Gli Interventi

Luciano Cafagna, La fortuna di una parola

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Giovanni Sabbatucci, La democrazia liberale e i suoi nemici

Quella che oggi chiamiamo “democrazia liberale” è una forma istituzionale che non ha alle spalle un’elaborazione teorica specifica e consistente. Nasce come ibridazione fra due filoni di pensiero politico che per tutto l’Ottocento erano stati, se non opposti, ben distinti; come scelta tutta pragmatica, e un po’ di ripiego, da parte di quei democratici che accettano di inserirsi in un quadro istituzionale – quello liberal-rappresentativo – basato su presupposti originariamente non democratici. La sede prima e il terreno di  sperimentazione di questo incontro è la Francia della Terza repubblica, dove la democrazia tende a farsi liberale (diversamente dalla Gran Bretagna dove è il liberalismo a democratizzarsi piuttosto lentamente). Il risultato di questo incontro è tale da deludere profondamente le aspettative dai democratici, legati a una concezione contenutistica (e non meramente procedurale) della democrazia, tutta centrata sulle “virtù repubblicane”. L’ipotesi di lavoro è che la contestazione alla democrazia nella prima metà del secolo XX nasca soprattutto da questo scarto fra “democrazia ideale” e “democrazia reale”, che sia rivolta più contro la democrazia liberale che contro la democrazia tout-court, che venga non solo e non tanto dai nemici dichiarati della democrazia quanto dai democratici delusi: insomma, quella che porterà nei primi anni Quaranta al quasi totale espianto delle istituzioni democratiche dall’Europa continentale sarebbe non solo una crisi della democrazia, ma anche una crisi nella democrazia.

 

Silvio Lanaro, Elites e masse. Il ceto dei colti e il rigeto della democrazia

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Raffaele Romanelli, I meccanismi della rappresentanza

Assumendo che i sistemi politici moderni non possano prescindere da qualche forma di rappresentanza politica come fonte di legittimazione, e che l’esercizio della rappresentanza politica a sua volta non possa essere disgiunto dalle convenzioni primarie che storicamente la reggono (individualismo, egualitarismo e dimensione nazionale della sfera politica), tratterò dei meccanismi con i quali i sistemi politici moderni cercano di far convivere quelle convenzioni con ordinamenti e assetti sociali che vi sono strutturalmente refrattari. In sintesi, passerò in rassegna i modi in cui attorno alla rappresentanza politica si scontrano principi “atomistici” e assetti “organicistici”.

Dividerò il ciclo sotto esame in tre fasi. Nella prima, che riguarda principalmente l’Ottocento e giunge ai primi del Novecento, la torsione “organicistica” del suffragio è affidata principalmente al discorso sull’estensione della cittadinanza politica, anche se in regime allargato o semi-universale si sperimentano altre forme di distorsione del principio egualitario (voto a più gradi, plurimo, multiplo, etc.). E’ peraltro in questa fase che la cultura politica si attrezza per combattere il principio universalistico ed elabora molti strumenti concettuali messi in pratica più tardi. In una seconda fase, che grosso modo arriva al 1945, la riproposizione dei “corpi intermedi” contro l’individuo e le connesse sperimentazioni istituzionali toccano il culmine – è l’età della mediazione partitica, dei soviet, dei sindacati e delle corporazioni – fino a contenere entro confini geopolitici definiti (sostanzialmente in area euroatlantica) la sopravvivenza stessa del principio rappresentativo classico. Alla cui riaffermazione mondiale dopo il 1945  giova, oltre che la vittoria militare dei paesi euroatlantici in cui quel principio è ancora vigente, anche l’incapacità dei meccanismi “organicistici” di raggiungere una qualche forma di efficacia funzionale. Si apre così la terza fase, che impone il regime rappresentativo-universalistico-individualistico come paradigma mondiale e dunque assiste allo scontro tra quel paradigma (che le vicende menzionate hanno maggiormente legato ai contesti euroatlantici d’origine) e le società “altre”. Subiti i primi contraccolpi e apertasi con gli anni settanta la “terza ondata”, la reazione “corporatista” presenta caratteri nuovi rispetto a quelli sperimentati nella seconda fase: non una contrapposizione escludente, bensì una convivenza, che tende a ritualizzare e a svuotare di contenuto il procedimento elettorale, che sposta altrove i meccanismi del potere e vi affianca una forte pluralità istituzionale (democrazia del pubblico, neo-corporatismo, istituti a-democratici, etc.).

Alessandro Pizzorno, La dispersione dei Poteri

Quando Bentham, in quel piccolo capolavoro di polemica filosofica che è il “Fragment on Government” irride a Blackstone che, adottando Montesquieu, malinterpreta la struttura dei poteri nella costituzione britannica, e gli osserva che i poteri sono ben poco indipendenti l’uno dall’altro,  se il re continua ad influenzare pesantemente le elezioni al parlamento, e a ricattare i membri dell’esecutivo con la “distribuzione di uffici, dignità e profitti”, mostra da una parte di non cogliere il significato organizzativo del concetto di “separazione dei poteri”, che si riferisce essenzialmente a una separazione delle competenze istituzionali; dall’altra però di aver intuito, senza esprimerlo esplicitamente, il significato sociologico di quell’espressione. Il principio della separazione dei poteri per Blackstone, così come per Montesquieu, era volto a tracciare i confini dell’esercizio del potere di tre soggetti politici concreti: il monarca, l’aristocrazia (i Lords) e i Commons. L’evoluzione della fase successiva, lenta in Gran Bretagna, improvvisa in Francia dopo la rivoluzione, sarà quella di concentrare il potere nel Legislativo, sia nella pratica istituzionale, sia nell’autocoscienza ideologica con la dottrina della sovranità popolare e quindi dell’onnipotenza del legislativo.  Sembrava così risolto il problema della nuova sovranità. Si ricostituiva, almeno ideologicamente, l’unità del potere supremo, collocandola nel potere di fare leggi.  In realtà, l’evoluzione ben presto si complicava da una parte, in Francia, con l’emergere, anche dottrinale, di un nuovo potere, chiamato “pouvoir gouvernamental” (potere di deliberare non di eseguire, come diceva Sieyès), che definiva i compiti non amministrativi (firmare trattati, dichiarare guerre, ecc.), nel quale andava a collocarsi il reale potere supremo unitario (incluso il controllo di fatto della giurisdizione). Dall’altra, in Gran Bretagna, con lo strutturarsi dei partiti che dava di fatto al governo il controllo della maggioranza parlamentare, quindi della legislazione.

Questa ritrovata unità del potere supremo andrà incontro, nella seconda metà del XIX e per tutto il XX sec. a una progressiva erosione e frammentazione, dovuta ai seguenti fatti (che formeranno il tema della mia relazione):

a) la trasformazione dell’attività legislativa da produzione di norme generali astratte a produzione di norme organizzative e di scopo. Prima lo Stato “nation-building”, cioè lo Stato intento a modellare la nuova società nazionale, quindi a controllare la socializzazione delle nuove generazioni, quindi a diffondere una religione civile; poi lo Stato sociale, saranno le espressioni più coerenti di questa nuova forma di uso della legge per governare.

b) Il formarsi di una società civile articolata e quindi l’organizzarsi, da una parte dei partiti, cioè delle organizzazioni di interpreti degli interessi generali; dall’altra degli interessi con capacità di accesso alla rappresentanza parlamentare, e, di fatto, capacità di produzione di norme non più “astratte e generali” bensì specifiche e volte a favorire interessi particolari. In entrambi i casi si potrà parlare di una sorta di ritorno alla rappresentanza di mandato, in quanto i membri del parlamento non sono chiamati a dibattere per giungere a formulare l’interesse della nazione, bensì ad esprimere le conclusioni cui sono giunti i loro mandanti, in un caso i partiti, nell’altro i portatori di interessi.

c) Come conseguenza di (a), una moltiplicazione delle fonti normative e un’espansione difficilmente controllabile della produzione di norme, che sposterà sui giudici l’onere sia di scelta delle norme applicabili ai casi specifici da giudicare, sia di interpretazione delle norme in questione. Il controllo del governo sulla giurisdizione, ottenuto sia grazie alla rigida gerarchia interna dell’ordine giudiziario, culminante nel ministro della giustizia, sia, nei sistemi di tipo napoleonico, grazie al ruolo del Pubblico Ministero, andava diventando progressivamente sempre meno efficace.

d) In parte come conseguenza di (a), in parte semplicimente come conseguenza del moltiplicarsi dei necessari rapporti tra lo Stato e gli interessi privati, il costituirsi di centri di decisione di natura mista, normanti e giudicanti, le commissioni regolatrici o Autorità indipendenti, che sono controllate attraverso la giurisdizione, ma che non rispondono nè al governo nè al parlamento; quindi a nessuna “sovranità”.

e) Come conseguenza dello sviluppo dell’organizzazione socio-economica in generale, e dell’organizzazione dell’amminisrazione dello Stato in particolare, l’estendersi delle linee di controllo. In due forme: l’allontanarsi delle operazioni produttive dalla loro remunerazione sul mercato; l’allontanarsi delle decisioni politiche dalla loro remunerazione elettorale. Ne deriva l’acuirsi di una serie di problemi “principale-agente”, dove l’agente accresce il suo potere di decisione autonoma in funzione di interessi particolari, contrastanti gli interessi dell’organizzazione sia pubblica, sia privata. Due tipici fenomeni sociali a prima vista assai diversi, appaiono espressione di tale situazione. La corruzione: la capacità dell’agente di rivolgersi direttmente a un mercato personale (illegale) per negoziare la vendita delle sue decisioni, o informazioni. Il costituirsi di aree organizzative con potere di ricatto fondato sull’insostituibilità delle prestazioni controllate (o sugli effeti paralizzanti generali della loro assenza (i camionisti, i controllori di volo, ecc.)

f) Come conseguenza di (b), il formarsi di sedi miste, con presenza di componenti politiche, amministrative, private, di decisioni ad hoc, volte a soddisfare interessi particolari. Ovvero sedi con rappresentanza di gradi interessi negozianti con il governo decisioni economiche o sociali di interesse generale (il cosiddetto neo-corporatismo.)

 

Lorenzo Ornaghi, I nuovi mediatori: democrazia associativa, democrazia post-parlamentare

La principale tesi che verrà argomentata è la seguente: le forme della cosiddetta mediazione s’infittiscono e tendono sempre più a palesarsi come ‘pubbliche’, via via che si allarga la forbice tra la legittimazione a governare e la legittimazione a rappresentare. Dai partiti, alle lobbies e ai gruppi d’interessi organizzati, sino alle ‘autorità indipendenti’, mediatori antichi e recenti tendono così a venir alternativamente interpretati (e, a seconda delle specificità storiche dei diversi Paesi, a funzionare effettivamente) o come persistenze ormai patologiche di una democrazia irrimediabilmente scompensata, o come avanzamenti verso una differente e ‘migliore’ articolazione dei rapporti tra istituzioni politiche e società.

Lungo gli svolgimenti (che sinteticamente possiamo definire ‘politici’) dell’intero Novecento, e in particolare all’interno del campo di tensione tra le poderose spinte alla istituzionalizzazione statale delle relazioni economico-sociali e le spinte altrettanto forti verso una de-istituzionalizzazione politica di queste medesime relazioni, gli sforzi di rendere più elastiche le tradizionali figure e concezioni della ‘democrazia’ si approssimano con crescente difficoltà al conseguimento del loro obiettivo. Da qui l’importanza di esaminare ragioni (e limiti) non solo della democrazia associativa, ma anche di quella democrazia che, proprio laddove maggiori sono gli spazi di governo e le capacità rappresentative dei nuovi mediatori, pur allusivamente non può per ora definirsi che ‘post-parlamentare’. La relazione, se in quest’ultima direzione cercherà di considerare particolarmente atrofie e dilemmi odierni della classica tripartizione dei poteri, per altro verso proverà a raccordare il tema del rapporto tra la legittimazione a rappresentare e la legittimazione a governare con lo svolgersi – lungo il Novecento, e rispetto all’avvicendarsi dei regimi politici – di un ancora enigmatico ‘ciclo’ nel ruolo giocato dalle più diffuse  rappresentazioni sociali.

 

Ernesto Galli della Loggia, Religione e democrazia

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Marcello de Decco, Risorse materiali e democrazia

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Leonardo Paggi,  Il welfare state e il problema della vita

Tendo ad attribuire alla categoria di vita- assolutamente centrale anche nella storia del pensiero filosofico, non escluso l’ultimo Croce- un ruolo importante per capire come processi di distruzione si intreccino nel secolo con grandi fenomeni di espansione.

Per fare un esempio: come pensare insieme i campi di concentramento e

la costituzione (in Europa) del consumo di massa(pubblico e privato)?  Rispetto a categorie politologiche, o a profili istituzionali, il mio interesse e’ quello di porre  in enfasi anche nella storia della democrazia europea le grandi cesure che si determinano nel rapporto morte/vita. Insomma è mio interesse specifico riflettere sul nesso tra welfare e warfare che vedo tra loro strettamente intrecciati, se si vuole a partire dal 1870. Penso ad esempio che la crisi della democrazia europea alla fine degli anni trenta e la sua ricostituzione dopo il 1945 si svolgono su terreni non facilmente tutti riconducibili a quello della politica, o delle ideologie politiche. Soprattutto parlando di welfare tendo dunque a intrecciare il rapporto tra stato e democrazia con quello tra stato e vita.

 

Federico Romero: Democrazia e pace: la ridefinizione americana dell’ordine internazionale.

Dal “making the world safe for democracy” di Woodrow Wilson fino all’ “enlargement of democracy” di Bill Clinton, democrazia è stata la parola chiave della visione americana dell’ordine internazionale tanto sotto il profilo prescrittivo che in termini analitici. Non è stata però l’unica (libertà, liberismo, interdipendenza, “national security” hanno di volta in volta avuto altrettanta rilevanza) e la sua prominenza è spesso dipesa dal contesto in gli Stati Uniti si trovavano ad interagire con altri attori ed altre culture.
La relazione cercherà in primo luogo di puntualizzare le accezioni in cui il termine è stato definito ed utilizzato in rapporto a specifiche contingenze storiche, e quindi analizzerà sia il suo peso relativo sia la sua occasionale, relativa irrilevanza nel determinare le grandi strategie americane nel corso del Novecento.
In secondo luogo si darà conto delle ricorrenti tensioni ed interazioni tra il concetto di democrazia ed altri caposaldi della visione americana esplorando i principali paradigmi interpretativi che hanno esaltato o viceversa deflazionato la sua effettiva rilevanza.
Infine, la relazione esaminerà  in particolare il percorso della guerra fredda per tentare di indicare alcuni dei criteri che possono consentire una plausibile valutazione dell’efficacia trasformativa che la pratica e il concetto di democrazia hanno avuto  per il mutamento dell’ordine internazionale.

Lucio Caracciolo (Limes) – La democrazia europea e il problema dello Stato.

La democrazia europea non esiste. Esistono diversi Stati democratici membri

dell’Unione Europea e di altre istituzioni europee. Si tratta quindi di affrontare tre questioni di fondo:

1) Che cosa è oggi l’Unione Europea, in termini geopolitici e in rapporto agli Stati democratici europei, e che cosa può/vuole diventare.

2) Come si è configurato storicamente il rapporto CEE/UE- Stati membri. L’Europa come garanzia della sopravvivenza degli Stati nazionali (Milward) o loro superamento?

3) In particolare, il rapporto tra CEE/UE e Stato italiano. Esiste un europeismo italiano, e in che cosa si distingue dagli altri paesi? E’ stata e resta valida la tesi del “vincolo esterno”? Dopo l’euro, come è cambiata la nostra percezione dell’Europa? Naturalmente queste domande non vanno affrontate in vitro ma nel contesto geopolitico più vasto, che fa dell’Europa uno spazio largamente determinato dagli Usa, in primo luogo, e dalla Russia.

Nicola Labanca, Guerre e democrazie

La relazione non vorrà indicare, in astratto o per via politologica-filosofica, come e se democrazia e guerra possano convivere. Vuole esaminare invece, in una prospettiva di sintesi, come storicamente alcune democrazie abbiano affrontato la sfida delle guerre, talvolta superandola talaltra invece modificandosi radicalmente. Il discorso sarà novecentesco e, più precisamente, post-1945.
Non potendo affrontare tutte le tematiche connesse, si concentrerà l’attenzione su:

1. come le democrazie entrano nelle guerre?

2. c’è una relazione fra le democrazie e un certo tipo di guerre?

3. come le democrazie mettono fine alle guerre?

Su questi punti, in ultima analisi, due sono le tesi di fondo che hanno animato il dibattito politologico-filosofico: A) la prima dice che le guerre trasformino le democrazie molto più di quanto le democrazie riescano a trasformare le guerre: che cioè vi siano state logiche delle guerre che le democrazie possono evitare ma che, una volta coinvolte, non possono più di tanto trasformare; B) la seconda sostiene che invece le democrazie fanno un tipo di guerra loro peculiare, e che non si combattano fra di loro. La relazione vorrebbe dimostrare che, storicamente, la realtà è molto più articolata e diversificata di questa apparente irriducibile opposizione.

Semmai, più in profondo, è il problema delle democrazie con le istituzioni militari che rimane contraddittorio: ma questa è un’altra, sia pur connessa, storia di tensioni e di campi di tensione: non solo degli anni di guerra ma anche dei più lunghi anni di pace.