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Stato e società civile in Danimarca: il paradosso danese

Uffe Østergaard
La Collana degli Archivi di Stato
Cittadinanza.
Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea

a cura di C. Sorba

La Danimarca e i paesi nordici in generale costituiscono delle varianti particolari dei modelli europei di state e nation building. Va detto subito che la Svezia e la Danimarca sono tra i più antichi e più tipici casi di stato-nazione e di conseguenza vanno studiati, alla pari di Francia, Gran Bretagna e Spagna, più come varianti dello stato-nazione nato nell’Europa moderna che non come casi di “piccoli stati”. I due stati, in competizione tra loro, hanno esercitato una forma di supremazia sulla gran parte del Nord Europa, dal tardo Medioevo in avanti. A causa di una sorta di reciproco esaurimento furono gradualmente rimpiazzati dall’egemonia russa, prussiana e inglese, e ridotti allo status di piccoli poteri statuali.
In ragione di cambiamenti simultanei nella grande politica durante il XVIII e il XIX secolo, i maggiori conflitti europei si dislocarono lontano dal Nord Europa e ciò produsse una “neutralizzazione” virtuale dei paesi scandinavi a nord del Mar Baltico. Questa si-tuazione di relativa neutralità fa sentire la sua presenza nella memoria collettiva dei danesi e nonostante anni di appartenenza alla Nato e all’Unione europea l’ideologia neutralista mantiene una forte presa nella popolazione. Un effetto secondario della propria esperienza di periferia privilegiata del Nord Europa fu la crescita di una comune identità nordica transnazionale al di sopra delle identificazioni nazionali. Anche oggi, gran parte della po-polazione considera l’unificazione nordica come un’alternativa plausibile all’integrazione politica e culturale europea. Si tratta di un’identità sopranazionale molto particolare, visto che furono forti identificazioni nazionali non competitive a costituire i prerequisiti per il successo della cooperazione nordica già all’inizio del Novecento (Østergaard 1997b).
Un paradosso come questo si è profondamente innestato nella cultura politica nordica e ancor più in quella danese. L’autopercezione dei danesi, così come è risultata dai pro-cessi storici, oscilla tra quella del “piccolo stato” dotato di un diritto morale a esercitare un’influenza maggiore in ragione di una società forte e coesa e quella di un “piccolo stato” privo di alcuna influenza. Spesso entrambe queste percezioni tengono il campo, magari in contesti differenti. Si pensi da un lato all’idea molto diffusa della “Danimarca come piccola terra”, e d’altra parte all’influenza sproporzionatamente alta esercitata in alcuni aspetti del mondo degli affari, che viene giustificata dal carattere altamente omogeneo e dagli alti standard morali che caratterizzano il paese.

1. Piccolo stato, società forte, potere debole, stato forte.
I concetti di “piccolo stato” e “società forte” non esauriscono la lista delle possibili caratterizzazioni di questo paese, tuttavia indicano alcuni dei modi in cui sia i danesi che gli osservatori stranieri hanno percepito la posizione internazionale del paese. La distinzione tra “potere debole” e “stato forte” è stata inizialmente introdotta da Barry Buzan (1983) ed è stata elaborata tra gli altri da Ole Wæver (1995) e Bertel Heurlin (1996). Contrapponendo il potere militare ed economico alla forza e alla coesione sociale, Buzan ha cercato di sottolineare il fatto che l’influenza della Danimarca nella comunità internazionale è esercitata sulla base di fattori altri rispetto alla taglia e alle potenzialità militari, fattori alla cui testa sta l’idea di “sicurezza sociale” (Buzan 1993). Probabilmente non è una coincidenza che questa fonte alternativa di influenza internazionale sia stata sottolineata dalla cosiddetta “Scuola di Copenhagen” per gli studi internazionali.
Quello della “società forte” non è un concetto nuovo, ma è stato ripreso di recente a seguito delle osservazioni su società molto diverse come l’Unione Sovietica e l’Italia. Tra gli altri Francis Fukuyama ha indicato l’importanza dei meccanismi sociali e culturali che pre-condizionano il ruolo della legge in ogni contesto. Su una linea simile si è mosso anche lo scienziato politico americano Robert Putnam, che investigando sui fattori di lungo periodo che hanno influenzato il funzionamento della cultura civica e della democrazia locale in Italia ha sottolineato l’influenza esercitata dalle tradizioni pregresse delle pratiche civiche nel nord e nel centro del paese. Putnam sostiene che la democrazia, e con essa il mercato e il ruolo della legge, prospera dove la società civile è forte e coesa. Tali os-servazioni recenti sono del tutto analoghe alle prime spiegazioni del Welfare nordico proposte dallo studio ormai classico di Marquis Childs (1936) sulla Svezia come “via mediana” tra capitalismo e comunismo. L’intenzione di Childs era quella di imporre ai suoi seguaci americani l’idea di un ordine sociale sulla linea del New Deal roosveltiano. Ma quel libro aveva anche profondamente influenzato le riflessioni scandinave sul cosiddetto “modello nordico di società”.
L’idea di un modello nordico di Welfare e, in generale, di socialdemocrazia, ha portato molti scandinavi a credere in una forte differenza tra le loro piccole, coerenti e pacifiche società e gli stati europei più ampi, aggressivi, e internamente contrastati. Tra i paesi nor-dici è proprio in Svezia e in Danimarca che questa visione ha attecchito maggiormente, nei due paesi che avevano dominato il Nord Europa innescando tra loro una competizione mortale per il mar Baltico che si consumò tra il 1500 e il 1800. Tale conflitto era nato – come vedremo – dalle realtà geo-politiche dei due stati nazione-multinazionali, entrambi impegnati ad affermare la propria egemonia sulla regione Baltica, e ha segnato pro-fondamente il loro passato nonostante la popolazione dei due paesi abbia sostanzialmente rimosso questa storia conflittuale.
Rispetto al quadro europeo, la Danimarca attuale appare come il vero archetipo del “piccolo stato” [1]. Di conseguenza, la sua politica estera è spesso interpretata e-sclusivamente alla luce di un’antica tradizione di neutralismo. In un libro di successo uno studioso danese che lavora in Canada, Carten Holbraad (1991), ha seguito quella tra-dizione facendola partire dagli accordi di pace della Grande Guerra Nordica del 1720. Un’analisi di questo tipo finisce per non afferrare i paradossi interni e le ambiguità presenti nella politica estera danese, sia tra le élite che nell’opinione pubblica più ampia. Holbraad identifica una politica danese di neutralità che si estenderebbe dal 1720 a oggi e distingue tra differenti versioni del medesimo neutralismo: la neutralità allineata del periodo 1720-1807; la neutralità isolata del 1814-1920; la neutralità difensiva del 1920-1945; la neutralità non allineata del 1945-1949 e la neutralità latente del 1949-1989. In sostanza, questo ap-proccio considera la politica estera danese come costituita di semplici variazioni rispetto all’attitudine fondamentale che sarebbe quella di un piccolo stato interessato solo alla pro-pria sopravvivenza. In questo modo non si riconosce però la politica attuale di “in-ternazionalismo attivo” (Holm 1997), che è stato sostenuto da un impegno militare di una consistenza finora sconosciuta, dallo spiegamento navale nel Golfo Persico ai tanks in Bosnia, fino alla cooperazione militare con la Polonia, con i paesi baltici (Heurlin 1994 e 1996) e dal 1999 con la Francia in Kosovo.
Altri osservatori hanno preferito continuare a riferirsi al paese come a una “piccola nazione”o un “piccolo popolo” al pari dei catalani, degli scozzesi, dei bretoni, dei corsi o di molti altri popoli europei cosiddetti senza stato. Questo è ovviamente sbagliato, visto che la Da-nimarca è una nazione dotata di un proprio stato, membro delle Nazioni Unite e con una lunga legittimazione storica alle spalle. Paesi come questo appartengono a quel gruppo ristretto e privilegiato di piccoli stati, dal Lussemburgo all’Olanda, che per particolari congiunture storiche hanno potuto contare sulla propria indipendenza nazionale negli anni cruciali della metà del Novecento, quando la cooperazione europea fu lanciata sulla base delle sovranità nazionali – si veda il titolo significativo del lavoro di Alain Milward (1992), La salvezza europea dello stato nazione, sulle prime fasi dell’integrazione.
È difficile individuare una logica precisa che spieghi gli status differenti della Catalogna, della Scozia o della Baviera rispetto al Lussemburgo, alla Danimarca e all’Irlanda. Tuttavia, riguardo al loro background “accidentale” [2], la sovranità di questi ultimi stati è un fatto che ha concesso a queste entità una voce effettivamente spro-porzionata negli affari politici ed economici europei. Nell’era degli stati nazionali l’indipendenza statuale gioca un ruolo importante quanto più è formalmente determinato. Quindi non può stupire il fatto che l’elettorato danese si aggrappi con forza alla sovranità del proprio paese, per quanto impreciso possa sembrare il termine, mentre tedeschi e italiani sembrano quasi accaniti nel sorvolare sulle loro sovranità nazionali rispetto alle istituzioni europee. Il problema per la Danimarca come attore della politica internazionale è che molti danesi non riconoscono una sovranità formale alla determinazione delle politiche europee. Piuttosto si sentono frustrati e ingannati nel percepire i limiti della propria influenza di piccolo stato, nonostante quella che ritengono la forza e la compattezza della propria struttura sociale.
Se investighiamo intorno al dibattito politico danese sull’integrazione europea e intorno agli elementi della cultura politica a questa correlati, ritroviamo una serie di caratteristiche generalmente date per tipiche di paesi recentemente indipendenti o non ancora tali. La Slovenia offre un caso interessante di comparazione con il nostro, rispetto alle mentalità nazionali così come si esprimono nel discorso politico, anche se le differenze geografiche e geo-politiche sono nonostante tutto notevoli. La terra slovena ha una storia lunga come quella della Danimarca ma solo come provincia separata nell’impero multinazionale asburgico. Non fu mai la base legittima di una riconosciuta monarchia nazionale in-dipendente. Gli sloveni sono un piccolo popolo raccolto in una nazione culturale ma che solo nel 1991 ha raggiunto il riconoscimento statuale (Gow e Carmichael 2000). In questo modo esemplifica il caso del piccolo stato-nazione su base etnica indagato dalla letteratura teorica sull’argomento (Connor 1994).
La Danimarca esiste invece da più di mille anni. Anche se non esattamente l’entità attuale, un’entità denominata Danimarca può essere identificata in età medievale. Ori-ginariamente si trattava di uno stato-nazione costituito da molte entità [3]; diversamente da Francia, Spagna e Regno Unito, fu impegnata in guerre laceranti con gli stati vicini (la Svezia e la Prussia) e perse una buona parte del proprio territorio. Diversamente dalla Polonia, però, non fu assorbita dai più forti stati vicini, visto che i poteri forti del momento erano interessati a conservare un piccolo stato sovrano all’entrata del Mar Baltico. Nel XIX secolo le province centrali di questo stato multiculturale e multilinguistico gra-dualmente si svilupparono in uno stato-nazione omogeneo dotato di una cultura politica e basato su una identità di lingua, di popolo, di nazione e di stato [4].
Nel contributo seguente intendo analizzare la confluenza tra la lunga legittimazione statuale, la realtà di piccolo stato-nazione ottocentesco, il rifiuto nazionalistico dell’Unione europea dal 1972 e le politiche attuali di internazionalismo attivo. A un primo sguardo le relazioni che intercorrono tra una società civile forte, l’identità nazionale e le diverse strategie e percezioni della politica estera, appaiono paradossali. Un piccolo stato con solo 5,3 milioni di abitanti e limitata forza militare può comportarsi in talune occasioni come un grande stato. In altre occasioni può enfatizzare piuttosto la sua limitatezza, particolarmente quando messo di fronte alla necessità di consegnare la propria sovranità all’Unione eu-ropea.

2. Nazionalismo integrale in uno stato nazione territoriale: un paradosso danese?
Se considerate in un contesto comparato, l’identità nazionale e la cultura politica danesi combinano caratteri che possono essere assimilati da un lato al nazionalismo integrale est-europeo tipico di un piccolo stato di recente formazione e dall’altro al con-cetto patriottico di cittadinanza dei più antichi stati nazione europei (Brubaker 1992). La spiegazione di questo apparente paradosso è che la Danimarca appartiene a entrambe le famiglie. Il precedente stato composito multinazionale è stato infatti ridotto a una taglia tale che ha permesso a una classe di circa 60.000 contadini proprietari di stabilire un’egemonia ideologica su una organizzazione statuale ridotta e nazionalizzata ma ancora pienamente legittimata. Solo pochi osservatori stranieri hanno correttamente identificato le ragioni storiche e geografiche che sottendono l’esistenza simultanea di orientamenti negativi verso l’Europa e di un ben informato e consapevole internazionalismo. Tra le eccezioni sta l’ambasciatore britannico in Danimarca della fine degli anni ’80, Peter Unwin [5] il quale, in un’analisi politica sulla ri-emergente regione baltica, osservava: “Denmark seemed at first sight the most transparent of national societies. But closer examination revealed paradoxes as inexplicable as any I had encountered as a diplomat in Hungary, Germany, the United States and Japan.
Unwin formula quei paradossi nel modo seguente:
I found the Danes an intriguing people, straightforward and perverse by turns. (….) [Who] think of themselves as relaxed and humour-loving, but the astonished stare with which they so often greet everyday statements spoke to me rather of well-controlled insecurity.
Long before their 1992 vote on Maastricht, the Danes were manifestly ambivalent about their place in Europe and about the impact of the European Community on their country. They seemed to me quite as reserved, as confused even, as my own countrymen, and more introverted by far than the British. And yet the Danes were polyglot citizens of Europe and the world, much travelled, cultivated, good judges of red wine, and a people with global conscience, pouring their money into relief of distant hardship“.
La spiegazione era da ricercarsi per Unwin nella situazione geo-politica:
If geography is the clue to history, history is the key to national psychology. The Danes, I found, were no exception to this rule. They cherish 1,000 years of continuity. They remember that their king’s writ used to run to the gates of Hamburg, as far as the North Cape and across the Sound deep into southern Sweden. Gradually they lost their empire, and its loss, along with wars with Sweden and Prussia and high-handed British arrogance has left its mark on the national psyche. Similarly, the Danes’ passionate egalitarianism is a peasant nation’s response to memories of royal absolutism and a harsh, German aristocracy. (…) The Danish psyche seems to have come to terms with this long history of loss with admirable equanimity. Animosity towards Sweden, for example, runs no deeper than the Oxford versus Cambridge variety. But with Denmark’s readiness to face reality came passivity, a sense that she lies exposed to the mercy of her neighbours and of superior force“.

Tutto ciò sembra vero anche rispetto al recente attivismo negli affari internazionali:
“[R]ecent Danish self-assertion reminds one that their emphasis on the littleness of Denmark has always had something self-consciously whimsical about it, almost Yiddish in its self-depreciation. For the Danes are rightly a proud people, with a proud history.(…) Many Danes find that their self-depreciating whimsicality sits uneasy with their proud past. Yet the modern history of little Denmark is a triumphant success story. When the Danish crown ceded its richest provinces to Germany in 1864, the Danes set themselves to develop the bleak heathland of Jutland and to create wealth there to replace the lost riches of Schleswig-Holstein. At the same time they began to lay the educational and socially egalitarian foundations of today’s Denmark. (…) To Danes, and to many foreign observers, Denmark is an ideal society. No one is very poor; few are very rich. (…) The state and its police are surprisingly intrusive, but their intrusions are accepted as necessary to that fairness and order which the Danes prize so highly” [6].
Sono le parole di un osservatore ricettivo e intelligente e indicano la centralità del dilemma tra un passato lungo e relativamente incontestato, seppure come stato-nazione composito di secondo rango, e l’immagine attuale di “piccola Danimarca” etnicamente omogenea, tanto simile alle più giovani nazioni della periferia europea. Visto che la memoria collettiva tende a dimenticare il passato multinazionale, sembra rilevante iniziare l’analisi sull’attuale identità nazionale e le ripercussioni sulla politica di integrazione europea ripercorrendo quella che fu l’evoluzione storica di questo stato-nazione. Un’ulteriore ragione di confusione è data dal fatto che l’antica monarchia composita portava il medesimo nome dell’attuale stato etnico, e più precisamente che di “Da-nimarca” si parlava anche per l’antica monarchia Oldenburg (1448 – 1863).

3. Dallo stato composito alla democrazia dei contadini proprietari
Fino alla perdita della parte norvegese nel 1814 il nome Danimarca si riferiva a un tipico stato composito europeo. La denominazione ufficiale di questo potere assoluto di media dimensione era “Monarchia Danese” o “Casa degli Oldenburg”, oggi ricordato co-me “Doppia monarchia” o “Danimarca-Norvegia”. Si tratta comunque di denominazioni così imprecise che debbono essere considerate sostanzialmente errate. Geograficamente si trattava di due regni, Danimarca e Norvegia, e di due ducati, Schleswig e Holstein, il secondo dei quali apparteneva all’antico impero romano-germanico. Inoltre lo stato comprendeva le dipendenze atlantiche di Iceland, Faroe Islands e Greenland, che da una posizione originariamente subordinata alla sovranità norvegese erano gradualmente finite sotto il dominio di Copenhagen.
La monarchia danese acquisì poi nel XVII e XVIII secolo una serie di colonie nelle Indie occidentali, nell’Africa occidentale (Christiansborg oggi in Ghana) e in India (Serampore e Tranquebar). Tale impero coloniale consentì allo stato di avere un ruolo, seppure minore, nel commercio atlantico triangolare tra il Centro Europa, l’Africa occidentale produttrice di schiavi e le Indie occidentali dello zucchero, oltre che un posto nel commercio con l’Oriente (Feldbœk e Justesen 1980). Nel tardo XVIII secolo le città principali erano Copenhagen, Altona e Kiel in Holstein, Flensburg in Schleswig e Bergen in Norvegia; eccetto Copenhagen, tutte sono collocate al di fuori delle frontiere attuali. I porti di Charlotte Asmalia a St. Thomas e di Serampore in India (prima Frederiksnagore) erano rispettivamente la seconda e la sesta città per volume di commercio e numero di abitanti dell’intero impero danese [7]. Le principali basi finanziarie dello stato derivavano dai tributi sul traffico navale lungo il canale di Oresund verso e dal Mar Baltico. A lungo, la monarchia danese dovette la sua posizione finanziariamente piuttosto forte a questa collocazione geografica, come dimostra l’impressionante castello di Elsinore costruito giusto in tempo perché Shakespeare lo usasse come scena del suo la-voro più importante. In ragione di questa favorevole posizione geo-politica la Danimarca era stata in grado di esercitare una egemonia sul Nord Europa fin dal tardo Medioevo, de facto per circa 400 anni e de jure nella forma della Kalmar-Union dal 1397 al 1523. Possedendo le principali isole del Baltico, lo stato danese si assicurò una posizione dominante sul territorio per altri cento anni, il cosiddetto Dominium Maris Baltici. Essendo uno stato composito che si estendeva da Capo Nord ad Amburgo, e possedendo varie isole nel nord Atlantico, la spina dorsale militare, tecnologica e politica era costituita dalla flotta. Una flotta che doveva essere grande abbastanza per combattere simul-taneamente guerre nel Baltico contro l’emergente rivale svedese e per proteggere i lontani possedimenti atlantici. Lo stato danese riuscì a farlo per più di 150 anni fino alla metà del XVII secolo. Poi, avendo abusato delle proprie risorse, soffrì una serie di sconfitte umilianti da parte del competitore svedese. Tra il 1645 e il 1660 la monarchia perse la sua egemonia sul Nord Europa in favore di un nuovo impero svedese sul Mar Baltico (Roberts1979). Tuttavia la flotta danese era ancora nella posizione di sferrare un colpo schiacciante agli svedesi nella guerra di Skaane (1675-1679). Solo i successi militari di terra permisero agli svedesi di mantenere i territori di quella che oggi costituisce la parte occidental-meridionale della Svezia stessa. Ancora nel XVIII secolo, comunque, il peso della sua flotta assicurava allo stato composito di Danimarca-Norvegia-Schleswig-Holstein un ruolo non secondario nel quadro europeo.
Da un punto di vista comparativo, possiamo notare come questo stato geogra-ficamente sovra-esteso e finanziariamente sovraccarico riuscì ad avviare un processo di modernizzazione nel lasso di tempo compreso tra la fine del XVII e il XVIII secolo (Horstboll e Østergaard 1990), un compito nel quale molti altri contemporanei fallirono. Da parecchi punti di vista questa monarchia nordeuropea fu in grado di rappresentare un punto di riferimento per gli ideali dei filosofi illuministi e questo spiega perché il suo sistema politico fu diffusamente dibattuto tra gli osservatori da Venezia fino a Londra, anche se non sempre favorevolmente, come accade nell’Esprit des lois di Montesquieu (1748) (Østergaard 1995 ).
In linea teorica il sistema politico fu di tipo assolutista a partire dalla rivoluzione del 1660 e dalla seguente imposizione di una sorta di “costituzione” assolutista (Lex Regia o King’s Law) nel 1665. Tuttavia la realtà politica era molto meno dispotica, tanto che lo storico norvegese Jæns Arup Seip ha paradossalmente definito il sistema danese – in uno studio del 1958 – almeno dal 1770 in avanti, come una sorta di “assolutismo guidato dall’opinione”, e io stesso l’ho definito come un “assolutismo basato sul consenso” (Østergaard 1995; Horstbøll e Østergaard 1990), con riferimento a una tradizione nazionale di consulto della pubblica opinione che accompagnò una lunga serie di riforme relativamente coerenti del sistema agrario, delle libertà civili, della regolazione del commercio negli anni compresi tra il 1784 e il 1814 (Lofting, Horstbøll, Østergaard, 1989; Østergaard, 1995).
Le successive catastrofi nella politica internazionale ridussero però questo stato composito multinazionale ad un piccolo stato nazione. Così piccola era la sua taglia dopo la perdita dei ducati di Schleswig e Holstein nel 1864 che molti nell’élite dominante si domandavano se sarebbe sopravvissuto come stato indipendente vicino alla Germania re-centemente unificata. Nuove élites in competizione tra loro idearono differenti programmi per la sopravvivenza del piccolo stato. Parte della intelligencija nazional-liberale auspicava l’unione con Svezia e Norvegia, all’insegna di uno “Scandinavianismo” (Østergaard 1996b e 1997b) [8]. Una piccola minoranza pensava all’allineamento con la nuova Germania, un gruppo più largo alla neutralità verso la Germania combinata con un orientamento economico verso l’impero britannico. Gradualmente, fu scelto l’ultimo pro-gramma, che portò a una piccola democrazia, uno dei piccoli stati descritti da Barrington Moore [9].
Ciò che è comunque importante è di non confondere questo secondo stato-nazione estremamente omogeneo con lo stato composito precedente, anche se ci si riferisce a essi generalmente con il medesimo nome (Danimarca). Sarebbe anche più sbagliato che confondere l’attuale Russia o la Serbia con l’Unione sovietica o la Jugoslavia. Ci sono alcune continuità, ovviamente, ma in molte aree le discontinuità sono più profonde [10].
Mentre gli osservatori danesi tendono a considerare a tal punto la continuità della loro storia da non riflettere nemmeno su tale terminologia, è importante invece tener conto del fatto che lo stato danese nazionalmente uniforme degli ultimi 150 anni è qualcosa di molto diverso dall’entità che incontriamo nella politica internazionale in età moderna. Il risultato della riduzione di taglia fu una popolazione estremamente omogenea, che consentì alla classe crescente dei proprietari terrieri di stabilire un’egemonia ideologica sulla cultura politica nazionale. Questa egemonia ideologica su un vecchio stato territoriale legittimato e completamente riconosciuto fu ed è ancora relativamente unica [11].
Al contrario di altri stati con forti movimenti di contadini-proprietari, in Danimarca essi si adoperarono ad assumere il potere e a tramutare questa piccola monarchia in una omogenea democrazia nazionale. I loro valori permearono tutti i settori della società, diversamente da altre società in via di modernizzazione dove dovevano competere con gruppi più forti. I coltivatori non erano l’unica forza sociale esistente, tuttavia, come dimostrerò, dopo il passaggio del secolo i loro valori definirono le condizioni dei conflitti ideologici, politici ed economici interni al nuovo piccolo stato e diedero il loro imprinting fondamentale anche alla borghesia commerciale e alla crescente classe operaia (Østergaard 1992 ?; Sørensen 1991).
Alcuni anni fa (nel 1995) il mio collega Helge Paludan sostenne che le condizioni strutturali per lo sviluppo di questi valori contadini nel cuore della monarchia datavano fin dall’Alto Medio-evo (ma non indietro dall’età vichinga), quando la famiglia cristiana fu stabilita per legge nel 1305. Secondo Paludan questa struttura familiare consolidata e istituzionalizzata con-sentì ai coltivatori di emergere come classe separata nel solco dell’enorme ristrutturazione fondiaria che corrispose alla crisi agraria del tardo Medioevo. Nonostante la schiacciante maggioranza dei coltivatori fossero affittuari, essi conducevano le loro fattorie in modo relativamente stabile e sicuro. In ragione della protezione della Corona verso questi ultimi era difficile per i proprietari aristocratici incorporare le singole fattorie nelle proprietà che essi gestivano direttamente. Se l’interpretazione di Paludan è vera, la spiegazione strutturale di lungo termine del peculiare sviluppo agrario nelle terre centrali danesi – ossia nord e sud Jutland (chiamate Schleswig in tedesco e Sonderjilliand in danese), Zelanda e sud della Svezia – data veramente da molto lontano. Questi valori poi aiutarono i coltivatori a sopravvivere con successo alle riforme agrarie del tardo XVIII secolo e a risorgere come classe egemone nel XIX e XX secolo, ben dentro l’età industriale. Tale continuità sociale, comunque, non implica alcuna diretta continuità nella nazione politica.
Il riferimento alla forza dei valori liberali contadini aiuta anche a spiegare alcuni dei paradossi dell’identità nazionale e della cultura politica odierna. Per quale ragione una cultura politica relativamente aperta ha regredito sul suo professato internazionalismo e rigettato il progetto europeo? A parte i disaccordi tattici, la maggior parte dello spettro politico danese concorda con una sostanziale diffidenza nei confronti di ogni entità “grande”, transnazionale ed europea. Il disaccordo tra destra e sinistra si basa sulle dif-ferenti percezioni dei benefici economici che si prevedono dall’unione europea e sulle diverse valutazioni degli aggiustamenti necessari nelle politiche distributive. In materia europea, comunque, entrambe le parti sostanzialmente concordano sul fare il meno pos-sibile, il più tardi possibile, il più economicamente possibile e con poco entusiasmo.
Da un lato l’identità nazionale danese riflette l’orizzonte mentale parrocchiale di una classe di medi proprietari terrieri. Dall’altro questi stessi contadini producevano prodotti agro-industriali per il mercato globale, avendo ereditato uno stato pienamente legittimato che consentiva loro di agire a livello internazionale in modo paritario con altri poteri statuali più grandi. Internazionalismo e parrocchialismo erano combinati tra loro: una estrema sicurezza di sé e nel contempo una tradizione di accentuazione della propria piccolezza e marginalità sono caratteristiche del modo di vedere danese e tutto ciò aiuta a spiegare un’attitudine apparentemente contraddittoria verso la cooperazione internazionale. La co-operazione economica è considerata positivamente e le alleanze militari necessarie, ma la cooperazione politica è percepita innanzitutto come una perdita di sovranità. Per capire l’origine di questa particolare combinazione di fattori dobbiamo esaminare l’esperienza storica danese più da vicino.

4. Stati compositi in guerra. Gli imperi svedesi e danesi
Le frontiere attuali tra Danimarca e Germania datano solo dal 1920, cioè la moderna Danimarca, strettamente parlando, è il risultato degli accordi di pace che seguirono la prima Guerra Mondiale. Tuttavia il paese ha una storia molto più lunga dietro di sé, come d’altronde gli altri stati nordici. Il passato della Finlandia, della Norvegia o dell’Islanda è ad esempio più vicino di quanto appaia oggi a quello delle piccole nazioni nell’Europa dell’Est o anche a quello delle popolazioni decolonizzate del Terzo Mondo [12]. Danimarca e Svezia, invece, appartengono a un gruppo diverso di classici stati-nazione occidentali come la Francia, il Regno Unito o la Spagna. Come suggerisce lo storico britannico Hugh Kearney in uno studio del 1991, è istruttivo comparare gli sviluppi del Nord Europa con quelli di Spagna, Gran Bretagna e Francia, non solo per afferrare meglio la storia nordica ma per comprendere meglio questi ultimi stati.
Se ci si chiede perché l’unificazione del Nord non prese piede nel Medioevo o nella prima età moderna, come fu il caso della Spagna, dell’Inghilterra o della Francia, è ne-cessario cercare la risposta in Svezia. Nel tardo Medioevo la monarchia danese cercò di raggiungere il controllo dell’intera regione baltica e tale strategia fu denominata Dominium Maris Baltici. Ma la competizione con la Svezia impedì il successo di quel progetto. Per compensare il proprio modesto assetto demografico gli stati relativamente poveri di Danimarca-Norvegia e Svezia si organizzarono, ognuno a suo modo, con un apparato statale che era più pesante di quanto non fosse normalmente in Europa (Anderson 1974: 173-91). Il grado di centralizzazione e l’estensione della tassazione sono ancora evidenti nella magnificenza degli edifici monumentali delle due capitali, Copenhagen e Stoccolma.
Quella danese fu a lungo la più popolosa tra le tre monarchie scandinave e il suo sforzo per raggiungere la supremazia territoriale fallì probabilmente perché la nobiltà danese, prima della sua sconfitta seicentesca, rifiutò di essere addomesticata da una monarchia forte. D’altra parte la nobiltà transnazionale, che aveva estese proprietà sia in Svezia che in Danimarca, non riuscì a creare una sorta di repubblica aristocratica come avvenne ad esempio nella respublica polacco-lituana (Davies 1984, p.296). A sua volta la Svezia si rinsaldò a tal punto che tra il 1645 e il 1709 fu capace di assumere l’egemonia nel Baltico e nel Nord Europa e di stabilire un vero e proprio impero. La Danimarca evitò in quel periodo di essere annessa alla Svezia solo perché la grande potenza del momento, cioè i Paesi Bassi, aveva interesse a mantenere uno stato debole al controllo degli accessi baltici e decise di aiutare la Danimarca, insieme all’Inghilterra e alla Russia, che ac-cordarono il loro supporto anch’esse per paura di trovarsi di fronte una singola grande po-tenza all’entrata del Baltico. Questo salvataggio in extremis lasciò tracce profonde nella memoria collettiva dei danesi, qualcosa di simile a un vero trauma [13]. L’acquiescenza danese, d’altra parte, fu tale, che la storia di quel conflitto è stata virtualmente cancellata dalla memoria storica istituzionalizzata e se il conflitto vive ancora, rimane comunque, come ha sottolineato Peter Unwin, a un livello comparabile alla competizione tra Oxford e Cambridge (Unwin 1996, p.210).
Dopo le annessioni del 1658-1660, e soprattutto dopo lo scacco della guerra di Skaane nel 1675-1679, il governo svedese prese misure radicali per riorientare la popolazione dei territori danesi annessi verso la Svezia. Ciò che è notevole non sono gli sforzi in sé, ma il fatto che ebbero successo. Come lo storico danese Kund Fabricius ha dimostrato, quello del territorio di Skaane costituisce il solo esempio conosciuto in cui una tale massiccia opera di indottrinamento nazionale ebbe successo (Fabricius, 1906, pp.3-16). Se ciò debba essere attribuito alla capacità dello stato svedese o al realismo (o debole identificazione nazionale) dei contadini danesi rimane una questione aperta (Aber 1994). Quello che vale la pena notare oggi è che l’antagonismo nazionale è stato effettivamente eliminato. Naturalmente ci sono ancora delle fratture aperte tra danesi e svedesi ma questo non è dovuto alle guerre del passato ma al fatto che fino a tempi recenti gli svedesi sono riusciti a presentarsi come l’epitome della modernità.
La rinuncia a Skaane, Halland, Blekinge, Gotland, Osel, Bohuslen, Herjedalen e Jemtland tra 1645 e 1660 corrispose anche all’introduzione in Danimarca della monarchia assoluta nel 1660. Questo implicò una riorganizzazione amministrativa e una “moder-nizzazione” dello stato, ma anche un ri-orientamento geo-politico verso i ducati di Schleswig e Holstein che furono gradualmente incorporati nel cuore del regno. Tale ri-allineamento fu quasi pari a quello simultaneo della Svezia, che ruotò dall’asse est-ovest a quello nord-sud. La monarchia danese cercò senza successo di riguadagnare le province perdute nelle due guerre del 1675-1679 e del 1709-1720, ma la crescita del potere della corona fu invece raggiunto con l’annessione delle regioni governate dalla famiglia Gottorp, i ducati dello Schleswig e Holstein, nel 1720.
Durante la prima di quelle guerre il ducato di Schleswig fu occupato da truppe danesi ma nel 1689 il re fu costretto ad accettare il ripristino del ducato dei Gottorp. Nel 1700 la Danimarca combatté ancora con la Svezia, ognuna alleata con un potere europeo. Come risultato della sconfitta svedese da parte dei russi in Poltava (oggi Ucraina), la Danimarca ebbe la sua rivincita, ma nessun compenso territoriale. A fronte di ciò Svezia, Francia e Gran Bretagna accettarono infine nel 1720 l’incorporazione dei ducati dei Gottorp alla co-rona danese.
La monarchia così assunse il suo nome ufficiale, che in basso tedesco suonava come “Kron zu Dennemark”. Tale designazione si riferiva non solo alle proprietà danesi, cioè allo Jutland a nord di Kongeæn e alle isole, ma ai possedimenti della corona nella sua interezza: Norvegia e dipendenze norvegesi, isole Farœs e Islanda, e anche i ducati di Schleswig e Holstein. Questo stato multinazionale poteva così essere classificato come un potere di media taglia, al livello della Prussia e della Svezia, ed era altrettanto multinazionale. Alla fine del Settecento, grazie alla Norvegia, possedeva inoltre la terza maggiore flotta europea. Nel 1767, dopo una profonda crisi militare, fu raggiunto un accordo di scambio con gli eredi dei Gottorp nel quale il re danese ebbe il possesso indiscusso dell’intero Holstein. Nel 1773 la monarchia ebbe così una realtà tangibile all’interno dell’assetto duale danese-norvegese. Erano poste inoltre le basi per il grande processo di riforma del 1784-1814, che fu avviato dai rappresentanti della èlite aristocratica di lingua tedesca la quale non vide ragioni per modificare la divisione amministrativa del paese, cosicchè le regioni danesi dello Schleswig continuarono a essere amministrate insieme all’Holstein, come stipulato nel “Trattato di Ribe” del 1460 (Gregersen, 1981).
La fondazione di uno stato organizzato data dunque tra il 1670 e il 1680, quando la monarchia assoluta si organizzò sul modello francese [14], emanando dei corpi di leggi che sistematizzarono e uniformarono le varie normative medievali di scala provinciale, introducendo ad esempio una Cancelleria (Horstbøll e Østergaard, 1990). Un’indagine completamente nuova del terreno coltivato e di altre risorse naturali rese possibile la raccolta delle tasse su scala più ampia. L’amministrazione centrale fu ricostruita sul modello svedese-europeo, cioè sulla base di collegi specializzati simili agli attuali ministeri. L’amministrazione dell’esercito e della flotta fu la prima a essere modernizzata, poi seguì l’amministrazione delle finanze, il cui collegio era formato da quattro aristocratici e quattro borghesi. Il percorso verso una carriera governativa fu così aperto a persone non nobili. Le vecchie amministrazioni regionali degli stati territoriali nelle cancellerie danesi e tedesche furono incorporate rispettivamente in un sistema di amministrazioni “interne” ed “esterne” e alla fine del secolo lo stato territoriale fu gradualmente sostituito con un Machstaat a base fiscale (Ladewig Petersen, 1984).
Nel 1800 il re danese governava ancora su un regno vasto, sebbene debolmente abitato, che si stendeva dalla Groenlandia fino all’Islanda, dalla Norvegia fino ai sobborghi di Amburgo. Secondo il censimento del 1801 la popolazione totale ammontava a 2,5 milioni di abitanti. La Danimarca-Norvegia contava 1,8 milioni di persone, il 51% delle quali vivevano su suolo danese; lo Schleswig-Holstein ne contava 600.000, il 54% delle quali in Holstein; gli altri possedimenti tedeschi circa 90.000 e le isole atlantiche 50.000. Nessun censimento attendibile esisteva per le colonie (Rasmussen, 1995, 25).
Tra il 1720 e il 1807 la monarchia danese aveva goduto di una notevole prosperità, basata sui prezzi crescenti dei prodotti agrari e sui sostanziosi proventi del commercio durante le ripetute guerre europee e coloniali (Feldbæk 1980). Nel primo Ottocento, tuttavia, la Danimarca-Norvegia assunse una posizione internazionale particolarmente rischiosa e finì per diventare avversaria della Gran Bretagna nelle guerre napoleoniche. La battaglia di Copenhagen nel 1801, il bombardamento della capitale nel 1807, la perdita della flotta e la sconfitta finale per mano della coalizione antinapoleonica portò alla bancarotta dello stato nel 1813 e alla perdita della Norvegia, che fu ceduta nel 1814 alla Svezia (Feldbæck, 2000).
Questi eventi alterarono completamente l’equilibrio tra l’elemento nordico e quello tedesco: nello stato composito il numero dei parlanti tedesco crebbe da meno del 20% al 35% e i sentimenti nazionalistici iniziarono a dividere lo stato (Rasmussen 1995, p.26). Come si è detto, nel 1806 il ducato di Holstein fu definitivamente annesso alla Danimarca come conseguenza della disgregazione del Sacro Romano Impero. Ma con la creazione della Confederazione germanica nel 1815, l’Holstein ridiventò un ducato indipendente, che significa che il re danese partecipava all’Assemblea federale in qualità di duca di Holstein. Come punizione per l’alleanza con la Francia fu costretto a cedere il regno di Norvegia e in cambio ebbe il piccolo ducato di Lauenburg (Norregaard 1954). Con ciò l’originaria monarchia duale diede origine al cosiddetto Gesamtstaat o Monarchia unita [15]. Sebbene ridotto, si trattava ancora di uno stato composito in termini legali, e mantenne il suo carattere multinazionale. Consisteva infatti nel regno di Danimarca (Nord Jutland fino a Kongean più le isole) e nei ducati di Schleswig, Holstein e Lauenburg; e, inoltre, delle dipendenze dell’Islanda, delle isole Farœ e delle colonie in Groenlandia, nelle Indie occidentali danesi, a Tranquebar e in Guinea. Ancora dunque un’entità multinazionale come era, a scala maggiore, la monarchia austro-ungarica. Come fu per questa, tuttavia, lo stato fu presto diviso tra due programmi nazionali antagonistici, uno danese (nelle varianti danese o scandinava) e uno tedesco (nelle varianti Schleswig-Holstein o pantedesca).

5. Guerra civile, rottura dello stato composito e nazionalizzazione delle masse contadine
Nazionalizzazione è il temine che denota in modo più conveniente il processo di identificazione nazionale nell’Europa ottocentesca. Esso indica processi di deliberata nazionalizzazione dall’alto (Mosse 1975), così come più democratici processi dal basso combinati con un indottrinamento nazionale da parte del sistema scolastico e dei media (Weber 1975) [16]. La domanda per la creazione di uno stato nazionale con una costituzione scritta fu dapprima formulata all’interno di circoli liberali d’élite nella prima metà del XIX secolo. In Danimarca e in Holstein il passaggio da un liberalismo in-ternazionale o sopranazionale a un nazional-liberalismo avvenne tra il 1830 e il 1842. Fino ad allora i movimenti liberali a Copenhagen e a Kiel erano alleati nella loro resistenza al potere quasi illimitato della monarchia assoluta che continuava a prevalere anche dopo l’introduzione delle assemblee consultive nel 1830-1834. Tutto ciò divenne chiaro dopo l’ascesa al trono di Cristiano VIII nel 1839. I liberali avevano creduto che il re avrebbe emanato anche in Danimarca la costituzione norvegese alla quale egli aveva sovrinteso nel 1814. Astuto com’era, invece, Cristiano VIII non nutriva alcun desiderio di limitare il pro-prio potere e di mettersi nelle mani di un crescente nazionalismo liberale. In queste circostanze i due gruppi liberali presenti nelle capitali di Copenhagen e di Kiel allacciarono specifiche alleanze strategiche. In Danimarca i liberali si allearono con i contadini piccoli proprietari, un’alleanza che nel 1846 fu sancita dalla creazione del partito politico Bondevennerne(Amici dei contadini). In Holstein un’alleanza più informale fu stabilita invece con l’aristocrazia della terra . Il confronto del 1848 non fu il solo risultato possibile dei conflitti nazionali in Schleswig, come è stato delineato dalla storiografia nazionalistica di entrambe le parti. Ma nessuno dei due gruppi nazional-liberali fu in grado di guadagnare potere senza una polarizzazione “nazionale” su base ideologica (Waahlin e Østergaard 1975). Così il nazionalismo finì per dividere il relativamente ben funzionante stato composito.
La radicalizzazione nazionalistica del linguaggio utilizzato portò alla guerra e finì con la disgregazione della monarchia danese, che dopo la sconfitta del 1864 sopravvisse a malapena come stato sovrano e solo con un aiuto esterno. Furono ancora gli interessi delle grandi potenze, in primo luogo la Russia e la Gran Bretagna, interessate a mantenere un potere neutrale all’ingresso del Baltico, che salvarono lo stato danese. Se non fosse stato così, il paese sarebbe diventato tedesco o svedese (cosa quest’ultima che poteva preludere a una unione scandinava).
Il programma di definizione di una nazione romanticamente, etnicamente e stori-camente motivata fu formulato dal partito Nazional-liberale – un partito sui generis per il fatto che i liberali non riconoscevano in linea di principio i partiti politici ma solo i rappresentanti dell’intera nazione (Lehmann 1861), che risale agli anni tra il 1830 e il 1848, quando si vide lo sviluppo di idee politiche moderne anche in Danimarca (Waahlin e Østergaard, 1975).
In pratica divenne evidente già prima del 1848 e della guerra civile tra “danesi” e “tedeschi” (la versione danese di una rivoluzione borghese, cfr. Østergaard, 1998) che le linee divisorie correvano parallele alle affiliazioni sociali o di classe. Accademici liberali, funzionari e altri rappresentanti della comunità liberale pensavano di conciliare queste fratture di classe elaborando efficaci appelli nel nome del “popolo”. Il mezzo per creare questa alleanza tra le classi fu il cosiddetto “revival nazionale” (o meglio l’incitamento nazionalistico) relativo al Ducato di Schleswig all’interno dell’assetto nazionale. La strategia funzionò bene per un certo numero di anni ma ebbe termine con il tentativo non riuscito di annettere lo Schleswig nel novembre del 1863 e i liberal-nazionali suc-cessivamente collassarono. L’intransigenza dei politici liberal-nazionali danesi e la loro incapacità di capire la situazione internazionale favorì Bismarck nel suo progetto di unità tedesca senza l’Austria e sotto il dominio prussiano. I liberal-nazionali domandavano uno stato-nazione danese secondo il suo assetto “storico”, e cioè comprendente tutto lo Schleswig fino al fiume Ejder, senza riguardo per le opinioni degli abitanti. Ciò avrebbe creato una larga minoranza tedesca all’interno della Danimarca. Al contrario, successe che la Prussia e l’Austria conquistarono tutto lo Schleswig e l’Holstein che comprendevano una larga popolazione danese (Østergaard 1996a). Questo portò poi alla proclamazione del nuovo impero tedesco nel 1871.
La presenza in mezzo all’Europa di questo nuovo potere provocò a sua volta un’unificazione nazionale in Danimarca, così come in altri paesi vicini. In Danimarca questo risultato fu raggiunto in modo abbastanza eccezionale, attraverso una combinazione di pressioni esterne e di iniziative dal basso, in primo luogo da parte della classe dei piccoli proprietari. Fu proprio sulla base di una cosciente demarcazione rispetto alla Germania e a qualunque cosa fosse tedesca, che emerse l’identità danese (Østergaard 1984). Nel 1870 l’opposizione aprì con successo un Kulturkampf virtuale con i conservatori e i liberali urbani per il controllo delle scuole e delle congregazioni. La battaglia per la scuola ebbe maggiore importanza per il radicamento di una egemonia culturale rispetto al conflitto che attraversò la cultura letteraria degli anni Ottanta (Østergaard 1984). Quest’ultima era stata sempre oggetto di attenzione da parte degli intellettuali social-liberali attenti alla qualità dei contributi di un critico e politico come Edvar? Brandess (1847-1931), o come lo storico letterario Georg Brandess (1842-1927), o come il giornalista e politico Viggo Horup (1841-1901) e altri cosiddetti intellettuali “europei”. Nonostante la loro brillantezza intellettuale e il loro apparente successo con la creazione del giornale “Politiken” nel 1884, l’egemonia culturale a cui essi tendevano non si materializzò, mentre i movimenti sociali e religiosi dei Grundtvigians e quello dei loro oppositori nella “missione interna” pietista, ebbero maggiore successo. Dai loro sforzi emerse un’egemonia di cui nel XX secolo si appropriò anche il movimento dei lavoratori social-democratici.
Con l’unificazione sociale, comunque, si raggiunse un alto grado di mobilitazione nazionale tra le masse rurali e nel resto della nazione. Questo nazionalismo, a sua volta, rese estremamente difficile per il governo impostare i necessari compromessi con il vicino e crescente potere tedesco. Solo la sconfitta del Reich tedesco nella prima Guerra Mondiale aprì un’opportunità per la Danimarca di recuperare i danesi del Nord Schleswig. In ragione di precisi sforzi per una loro germanizzazione, i danesi dello Schleswig erano diventati ardenti nazionalisti, organizzando una sorta di società parallela (Japsen, 1980). Furono necessari sforzi sovrumani da parte dei coraggiosi e illuminati rappresentanti della minoranza danese in Schleswig, come H.P. Hansen Norremolle (1862-1936), per arrivare a un cambiamento nella linea politica danese e ottenere un compromesso nazionale con il suo più grande vicino (Østergaard, 1996a).
Uno dei pre-requisiti fu la costruzione di una nuova coscienza all’interno della popolazione. Un elemento importante in questo processo fu il ri-orientamento del paese verso il Nord, piuttosto che verso l’Europa (Østergaard 1996b). L’interrogativo se lo slittamento da un orientamento europeo a uno nordico fu un prezzo culturale adeguato rimane oggetto di discussione. In ogni caso, è incontestabile che, a breve, quella nuova strategia comportò vantaggi politici verso il consolidamento di uno stato-nazione omogeneo che fu in grado di rimanere tale anche dopo la resa alle forze tedesche, quasi senza combattere, nell’aprile del 1940.

6. Le radici contadine dell’identità nazionale danese.
Contrariamente a quanto successe nella maggior parte degli altri stati-nazione ottocenteschi, la piccola taglia dell’amputato stato danese permise a una numerosa classe di contadini relativamente benestanti, divenuti proprietari indipendenti grazie alle riforme tardo-settecentesche, di assumere un’egemonia politica ed economica. Ciò non successe senza opposizione ma nel corso della fine del secolo la classe dei contadini-proprietari gra-dualmente ebbe la meglio sulle élites precedentemente dominanti che erano reclutate tra la borghesia urbana, i funzionari pubblici formatisi nelle università su modello tedesco, sia fuori che dentro la monarchia, e le classi proprietarie. Dopo la débacle del 1864 esse avevano perso fiducia nella sopravvivenza dello stato. Alcune avevano anche giocato col pensiero di riunirsi allo stato vicino, che già dominava la cultura delle classi alte.
In questa situazione, tuttavia, un soprassalto di energia cosiddetta “popolare” diede avvio a una strategia di “vittoria interna al seguito della sconfitta esterna”. Lo slogan diventò quello del recupero delle perdute terre agrarie dello Jutland occidentale, desertiche per la deforestazione dei secoli XVI e XVII. Prese inoltre la forma dell’apertura di un “Dark Jutland” nello sforzo di ri-dirigere l’economia della penisola verso Copenhagen invece che verso Amburgo. Questo movimento, chiamato provocatoriamente “La scoperta dello Jutland” (Frandsen 1995 e 1996), prospettava lo sfruttamento di quel territorio da parte della capitale Copenhagen, situata nell’estremo orientale del paese come residuo del precedente impero, un po’ come Vienna nell’Austria di oggi. Questa battaglia tra me-tropoli e provincia non si è ancora conclusa, come dimostrano le controversie a proposito della costruzione di un ponte tra le isole di Fyn e Sjœlland o per collegare la Svezia e Copenhagen direttamente con la Germania sul golfo di Fehmern (Østergaard 2000a e b). Il tentativo di tenere insieme lo stato-nazione danese e di slegare lo Jutland da Amburgo ebbe successo, così come il ponte fu completato. La decisione, tuttavia, fu raggiunta solo con uno strettissimo margine.
Più importante, comunque, fu il risveglio culturale, economico e politico dei piccoli contadini, che divennero proprietari producendo per il mercato mondiale proprio in questo periodo. La base del loro successo fu la relativa debolezza della borghesia danese e la tarda industrializzazione del paese, il cui decollo avvenne solo negli anni ’90 dell’Ottocento (Hansen 1970). Precocemente, dunque, i piccoli proprietari svilupparono una coscienza di sé come classe e come reale ossatura della società. La loro ideologia favoriva il libero commercio, visto che essi avevano presto cominciato a esportare in modo consistente derrate alimentari verso il mercato britannico in rapido sviluppo. I legami commerciali con la Gran Bretagna erano così importanti che la Danimarca, economicamente parlando, era di fatto, tra metà ’800 e metà ’900, una parte dell’impero britannico. Ciò che è più sorprendente è piuttosto il fatto che la loro ideologia conteneva anche forti elementi libertari, in ragione della battaglia condotta con le élites urbane e accademiche esistenti. Il movimento dei piccoli proprietari conquistò l’egemonia riuscendo a consolidare una cultura indipendente con proprie istituzioni educative e questo fu possibile grazie alla tipica forma organizzativa dell’impresa agraria danese cioè la cooperativa.
La produzione agraria di base era rimasta individuale, sulla base di fattorie indipendenti, sebbene di una taglia più ampia rispetto al contesto europeo. Tuttavia, il processo di trasformazione delle derrate e della carne in prodotti da esportazione avveniva in fattorie industriali condotte su base cooperativa. Le associazioni cooperative erano gestite in modo democratico su una base egualitaria proporzionata all’investimento iniziale. Il movimento cooperativo formulò a questo proposito un proprio slogan interno che suonava all’incirca così: “per capo invece che per capo di bestiame” (vale a dire che ogni uomo aveva un voto proporzionato all’investimento iniziale). Questo gioco di parole si rivela meno vero quando si va a indagare intorno alla realtà delle cooperative, tuttavia il mito rimaneva, producendo un senso di comunità che attraverso la mediazione di varie tradizioni politiche è stato trasformato in una durevole egemonia che aprì il terreno a un consenso nazionale. Questo consenso, sebbene difficile da definire, favorì fino a tempi molto recenti una comunicazione sociale che ha attraversato le differenze di classe. Humour e understatement hanno prosperato su un comune sentire che precede le parole stesse.
I valori libertari, tuttavia, non erano originariamente fatti per includere altri segmenti della popolazione. Il sistema agrario era basato su un forte sfruttamento dei lavoratori agricoli da parte dei proprietari. I primi, spesso, non erano nemmeno considerati parte del “popolo”. Attraverso una manovra ideologica interessante e sorprendentemente originale la crescente socialdemocrazia finì per adattare la sua ideologia a queste condizioni agro- industriali particolari della Danimarca e sviluppò una strategia molto differente dal-l’ortodossia marxista. La socialdemocrazia danese era addirittura favorevole al con-solidamento di una classe di piccolissimi contadini chiamati “husmoend”. In questo modo i socialdemocratici risposero alle aspettative delle classi lavoratrici ma allo stesso tempo si giocarono la possibilità di una maggioranza assoluta in parlamento, come fecero i loro omologhi in Svezia e in Norvegia.
Questa strategia apparentemente suicida, così come i compromessi nella politica abitativa, mise fuori gioco qualsiasi posizione di virtuale monopolio socialdemocratico di potere, come era il caso della Norvegia e della Svezia (Esping-Andersen, 1985). Nel corso della prima guerra mondiale divenne chiaro alla leadership socialdemocratica danese che il partito non avrebbe mai raggiunto una maggioranza politica assoluta. Sotto la guida carismatica di Thorvald Stauning (1910-1942), il partito passò da una strategia classista a una più interclassista. La linea consensuale fu dapprima formulata nel 1923 e più tardi con l’adozione di slogan dal sapore cooperativo, oppure del tipo “Danimarca per il popolo” (1934). La piattaforma portò, tra il 1929 e il 1943, a una stabile coalizione di governo tra i radical-liberali e il partito socialdemocratico, i leader del quale ap-parentemente accettarono il passaggio dell’influenza del loro movimento agli interessi della società nel suo complesso. I socialdemocratici danesi nelle loro pratiche politiche ebbero una migliore capacità di comprensione del mondo agricolo rispetto agli omologhi tedeschi, ma si dimostrarono incapaci di trasformare questa capacità in una teoria coerente. A livello dottrinale, infatti, le loro formulazioni riflettevano i dibattiti internazionali della Seconda Internazionale piuttosto che la realtà danese. Solo il fatto che il programma del 1813 rimase immutato fino al 1961 testimonia la scarsa importanza attribuita a livello dell’elaborazione teorica in quello che era il più pragmatico dei partiti socialisti riformisti, capace comunque di produrre un impressionante numero di amministratori e politici di valore.
Questa mancanza di una strategia esplicita permise agli eredi dell’ideologia contadina libertaria di mettere presto radici all’interno del partito e del movimento dei lavoratori. Ironicamente, chi meglio capì la Danimarca fu Lenin, che in una discussione sul programma agrario socialdemocratico prese come riferimento le cooperative danesi che aveva studiato nella Royal Library di Copenhagen. Lenin si dimostrò abbastanza positivamente disposto verso quella strategia ma rifiutò di assumerla per la Russia per varie ragioni.
Il motivo principale per cui una ideologia libertaria di solidarietà finì per dominare un intero stato-nazione fu la piccola taglia di quello stato. Storici e sociologi danesi hanno ampiamente discusso se l’egemonia ideologica contadina fosse risultata da una particolare struttura di classe precedente il 1780 o piuttosto risalente all’inizio del XVI secolo, quando il numero delle fattorie fu congelato per legge, oppure se fu questa ideologia a creare la particolare struttura di classe delle società ottocentesca danese (Paludan 1995). Posta in questi termini, la discussione è quasi impossibile da risolvere, visto che ciascuna posizione ha una parte di verità. A mio avviso la realtà può essere meglio spiegata attraverso l’esistenza di una particolare forma di populismo o di ideologia “popolare” che sottolinea l’importanza del consenso fra la popolazione. Questa realtà fu formulata dapprima e in modo più coerente dal pensatore danese Nikolaj Frederik Grundtvig (1783-1872), che fu storico, prete e poeta. Con ciò vorrei tra l’altro sottolineare l’importanza da attribuire a quanto gli storici definiscono caso o accidente, cosa che non implica il rifiuto di spiegare il corso della storia ma piuttosto significa accettare che un corso differente sarebbe stato possibile (Østergaard, 1997d).

7. Il consenso nazionale e sociale
In crisi dopo la sconfitta danese nella guerra 1807-1814, il giovane prete Grundtvig propose a se stesso di ristabilire ciò che egli pensava fosse l’originale mentalità “nordica” o “danese”. Tradusse perciò le Saghe islandesi, il poema anglosassone Beowulf e molte altre fonti di quanto egli considerava il vero ma perduto cuore della “danesità”. I suoi sermoni attraevano ampie folle di studenti entusiasti. Le sue invocazioni su “la luce della Santa Trinità” rivolte nel 1814 a un gruppo di volontari desiderosi di combattere i britannici ispirò un’intera generazione di giovani seguaci, incluso il religioso Jacop Christian Lindberg (1791-1857), che più tardi organizzò il primo movimento Grundtvigian. Quando Grundtvig s’imbarcò in una dura polemica teologica con i suoi superiori fu bandito da ogni pubblica apparizione e pubblicazione. Questo lo portò a quello che chiamò il suo “esilio interno” negli anni ’30 che gli diede il tempo di formulare un programma di revival della stagnante religione ufficiale. Quando il bando cadde, nel 1839, egli proruppe in una massiccia produzione di sermoni, salmi e canzoni, che costituirono un’eredità letteraria rimasta fino a tempi recenti al cuore della socializzazione di molti danesi.
Nel 1848, dopo lo scoppio della guerra civile per lo Schleswig, egli produsse una definizione di identità nazionale basata su una visione onnicomprensiva della natura, del linguaggio e della storia, che aiutò a porre le linee di un nazionalismo meno chauvinistico di molti altri analoghi. Come è spesso il caso con gli scrittori prolifici, le sue espressioni teoriche più precise si ritrovano nella forma sintetica del verso:
People! what is a people? what does popular mean?

Is it the nose or the mouth that gives it away?

Is there a people hidden from the average eye

in burial hills and behind bushes, in every body, big and boney?

They belong to a people who think they do,

those who can hear the Mother tongue,

those who love the Fatherland.

The rest are separated from the people, expel themselves, do not belong

(dal poema Folkelighed, 1848, trad. dal danese dell’autore).
Questa definizione, sebbene prodotta nel mezzo della battaglia con i ribelli di lingua tedesca nei ducati di Schleswig e Holstein, assomiglia a molte delle definizioni dell’identità nazionale prodotte dal francese Ernest Renan nel suo testo Che cosa è una nazione (1882). Così come i francesi dopo la sconfitta nella guerra franco-tedesca cambiarono idea rispetto a come una nazione debba essere definita, se in termini culturali o politici, lo stesso accadde in Danimarca dopo la sconfitta del 1864, che fu seguita nel 1867 dall’incorporazione nella Prussia di tutto lo Schleswig.
Le considerazioni di Renan sono diventate la formulazione standard di una definizione anti-essenzialista dell’identità nazionale, una sorta di definizione volontaristico-soggettiva che sottolinea l’importanza della volontà espressa del popolo. La definizione opposta nel pensiero europeo moderno è quella oggettivo-culturalista, che risale al tedesco J.G.H. Herder e ha permeato il pensiero otto- e novecentesco fino al fascismo e al nazismo (Østergaard 1991a). È sorprendente notare come il danese Grundtvig anticipasse quel cambiamento presentando una definizione democratica di nazionalità già nel 1848, e senza che una sconfitta militare l’avesse preceduto, come nel caso della Francia, dove fino al 1870 la nazionalità era stata definita in termini non meno essenzialisti di quanto non avvenisse in Germania. Per di più va ricordato che Grundtvig scrisse quei versi in una situazione politica altamente esplosiva, dove la maggioranza si era divisa nelle due province di Schleswig e Holstein a dominanza tedesca. Il poeta lasciò coloro che optavano per la lingua tedesca alla loro scelta di non-danesi, una scelta che giudicava deplorevole ma sulla quale non era possibile interferire. Il centro del suo pensiero era l’idea che cultura e identità fossero innestate nell’unità di vita e linguaggio e tale concezione non comportava l’esistenza di una gerarchia di nazionalità. Attraverso una storia lunga e complicata questa concezione identitaria divenne più tardi la base della politica ufficiale danese e fu applicata con successo nelle regioni di confine con la Germania dopo il 1920 e soprattutto dopo il 1955.
Fin dall’inizio il pensiero di Grundtvig si diffuse ampiamente tra la popolazione. Dopo il 1814 cominciò a circolare tra gli studenti, ma la svolta avvenne intorno al 1839, quando vari movimenti religiosi e politici decisero di trasformare il suo pensiero in una pratica. Dapprima questo influenzò i movimenti di revival religioso, più tardi i movimenti politici; e talvolta il suo pensiero fu alla base della creazione di istituzioni economiche ed educative. Va detto però che Grundtvig non cercò esplicitamente un tale supporto popolare. Furono altri a decidere tale diffusione e a far sì che il suo messaggio si trasformasse in una vera e propria ideologia che venne poi conosciuta come “Grundtvigismo” (Thodberg e Thyssen, 1983).
Le ragioni dell’influenza del suo pensiero non sono quindi da ricercare principalmente nel suo personale comportamento ma nella rilevanza che esso acquistò nella società del periodo. I revivalisti religiosi, in particolare, furono attratti dalla interpretazione in-dipendente che Grundtvig diede dell’eredità luterana. Nelle loro lotte contro lo stato assoluto essi impararono una lezione organizzativa che avrebbero presto messo in uso. I leader dei movimenti contadini degli anni ’40 furono reclutati tra le loro fila. Fu così che, sotto la tutela degli intellettuali liberali, il partito contadino gradualmente ruppe coi nazional-liberali. Le varie fazioni politiche del partito contadino avrebbero subito creato le proprie istituzioni indipendenti, a cominciare dalla chiesa. Con la trasformazione della monarchia in un regime costituzionale nel 1849, anche l’organizzazione della chiesa doveva essere modificata. Il risultato di questi processi differì in modo notevole dalla situazione per altri versi comparabile delle monarchie luterane di Svezia e Norvegia. Una chiesa di stato con una propria costituzione non arrivò infatti mai a esistere, sebbene fosse stata prevista nella costituzione del 1849. Questo fu un risultato dell’influenza di Grundtvig e del movimento revivalista che sollecitava precise garanzie di libertà religiosa (Lindhardt 1951).
Fu così che la Danimarca acquisì una combinazione del tutto peculiare di libertà e controllo dello stato in materia religiosa. Il ministro degli affari religiosi è chiamato ministro della “Chiesa del Popolo”, una contraddizione nei termini che non pare scuotere i danesi. Il ministro controlla l’amministrazione ecclesiastica e lo stato degli edifici religiosi, la maggior parte dei quali è finanziata con una tassa ad hoc, così come il 60% del salario dei pastori è fornito dallo stato. In ogni caso, viene lasciata ai singoli religiosi e alle loro congregazioni l’interpretazione degli insegnamenti della Chiesa. I consigli delle parrocchie locali eletti ogni quattro anni governano le congregazioni. A tutt’oggi i gruppi più influenti sono quelli della Inner Mission e dei Socialdemocratici (sic!). Nonostante le loro differenze essi collaborano spesso al fine di controllare i pastori eletti. I primi si formano normalmente nelle università e rappresentano una teologia luterana intellettualmente raffinata che spesso ha pochi contatti con gli ordinari credenti.
La maggior parte della popolazione danese apparentemente non religiosa appartiene a questa chiesa, nel senso che l’86% della popolazione paga le relative tasse anche se sono pochi a partecipare ai servizi religiosi. Ancora oggi, credo, il luteranesimo della Chiesa del Popolo gioca un ruolo enorme e non sufficientemente riconosciuto nel definire la cultura politica nazionale. In effetti, potremmo parlare probabilmente di democrazia luterana o protestante, piuttosto che di socialdemocrazia, quando analizziamo il modello socio-politico rappresentato dalla Danimarca in particolare e dai paesi nordici in generale [17].
Nel 1870 la battaglia ideologica principale fu condotta nel campo educativo. I nazional- liberali, alleati, in quel momento, con i grandi proprietari conservatori in un partito chiamato “la destra”, volevano un sistema scolastico completamente sotto la supervisione dello stato. A ciò si opponeva decisamente la maggioranza del partito dei contadini (“la sinistra”), che credeva in una assoluta libertà di educazione e attaccava le cosiddette scuole “nere” dove si insegnava ancora il latino. Alla base di queste posizioni stava il fatto che il movimento contadino dal 1844 aveva creato una rete di “folk high schools” diffuse in tutto il paese. Grundtvig aveva prodotto infatti nel corso degli anni una serie di programmi per un sistema educativo nuovo e più democratico. Come molte altre sue idee esse non erano diventate un sistema coerente ma piuttosto un appello per un miglior apprendistato alla demorazia.
Il pensiero anti-istituzionale di Grundtvig, in ultima istanza, permeò il sistema educativo danese a tal punto che anche oggi non ci sono scuole obbligatorie; è solo l’apprendimento a essere obbligatorio mentre il modo in cui una persona si educa è una scelta personale. Tutto ciò può non sembrare sorprendente ad ascoltatori americani ma lo è altamente nel contesto degli stati europei centralizzati a eredità luterana. Inoltre, tali scuole aiutarono a produrre una élite alternativa. Fino a tempi molto recenti potevano esserci due o forse tre modi diversi di reclutamento della élite politica, culturale e degli affari. Uno di questi era il sistema universitario, l’altro era costituito dal movimento dei lavoratori, almeno fino alla democratizzazione del sistema educativo pubblico nel corso del 1960. La terza linea di reclutamento, attraverso le “folk high schools”, può essere considerato un fenomeno ti-picamente danese. Grundtvig e i suoi seguaci diedero avvio a una sorta di rivoluzione culturale che, contro l’insegnamento formale delle scuole pubbliche, sosteneva il libero insegnamento con una particolare enfasi sul racconto e la discussione tra gli allievi. Tale programma diede origine a un sistema di scuole libere per bambini, che si affiancò alle “folk high schools” e alle scuole agrarie per i figli dei contadini.
È difficile stimare l’importanza delle scuole Grundtvigiane in termini quantitativi poiché la loro influenza è stata notevole anche fuori dalle scuole stesse. Non ci sono dubbi, comunque, che il solo fatto dell’esistenza di due o tre élites in competizione tra loro, ha favorito lo sviluppo dei valori libertari nella cultura politica danese contribuendo notevolmente a definire la “danesità”. Il carattere informale e anti-sistematico di questo insegnamento si adeguava estremamente bene ai valori del movimento contadino e spiega anche perché Grundtvig non fu mai amato dagli accademici, che tra l’altro gli rimproveravano la mancanza di coerenza teorica del suo programma. Questa informalità organizzativa divenne però un vantaggio nella prima fase del movimento e spiega come l’influenza dell’ideologia paesana fu capace di attraversare i confini di quella classe. L’insegnamento grundtvigiano era permeato da un sostanziale ottimismo rispetto alle capacità popolari, domandava libertà economica e ideologica e il diritto all’educazione dei cittadini. Era un programma che corrispondeva precisamente ai bisogni di un’ampia classe di piccoli proprietari terrieri coscienti di sé. Nella letteratura e nella storia danese è diventato un luogo comune interpretare il grundtvigismo come l’ideologia del contadino benestante. Questa identificazione tra classe e ideologia risale all’autore comunista Hans Kirk (1888-1962) che contrastò tale religione contadina con un programma di revival religioso più tradizionale fondato nel 1853. Secondo Kirk questo movimento religioso doveva meglio rispondere alle esigenze dei contadini più poveri e dei pescatori. Questa spiegazione, che presenta tre contesti sociali ognuno con una specifica religione, ha dominato a lungo la storia sociale danese. Ricerche seguenti hanno sottolineato tuttavia l’associazione molto semplicistica presente nella spiegazione di Kirk tra posizione di classe e credo religioso (Thyssen, 1960-75 e Waahlin, 1987). L’esame delle liste dei membri delle parrocchie Grundtvigiane, per esempio, mostra come essi non includessero solo contadini agiati. Il fattore determinante sembra essere stata la scelta fatta dalle élites della parrocchia. In gran parte della Danimarca invece di aprirsi verso altre classi sociali, i contadini agiati costituirono il cuore delle chiese sia di Inner Mission sia Grundtvigiane. Ma essi dominavano anche il gran numero di parrocchie che non praticavano alcuna sorta di revival, le cosiddette parrocchie morte, non affiliate a nessun movimento, che ammontavano nel 1909 al 50% del totale.
Questi risultati non arrivano a confutare completamente le spiegazioni su base classista delle scelte religiose, ma conducono a definirle meglio. Si può dire, cioè, che il Grundtvigismo non fu il solo mezzo ideologico rilevante per la crescita di una piccola borghesia imprenditrice. Ciò che è importante, tuttavia, è la funzione di entrambe le ideologie come veicolo per ottenere una rilevanza sociale. Entrambi i movimenti di revival avevano le loro radici, e aiutavano a esprimere, i bisogni di questa classe verso i funzionari governativi e la classe più influente degli uomini d’affari.
Ciò che è particolare nel grundtvigismo danese è la sua enfasi sull’unità di terra, paese, Dio e popolo, una sintesi virtualmente impossibile da esportare. In effetti, questa cultura giocò un ruolo trascurabile tra gli emigranti danesi nel Midwest americano, dove l’influenza del movimento Inner Mission fu più forte (cfr. Simonsen 1990).
In un ormai classico resoconto di “danesità”, Robert Molesworth (1656-1725), ambasciatore inglese presso il re di Danimarca dal 1689 al 1692, denunciò quella che chiamava la “mediocrità” e “piccolezza” danese. Molesworth, che odiava particolarmente la piccola ottusità contadina e l’intrigante scarsità di vedute dei danesi, concludeva così il suo resoconto:
To conclude; I never knew any Country where the Minds of the People were more of one calibre and pitch than here; you shall meet with none of extraordinary Parts or Qualifications, or excellent in particular Studies and Trades; you see no Enthusiasts, Mad-men, Natural Fools, or fanciful Folks; but a certain equality of Understanding reigns among them: every one keeps the ordinary beaten road of Sence, which in this Country is neither the fairest nor the foulest, without deviating to the right or left: yet I will add this one Remark to their praise. That the Common People do generally write and read (Molesworth 1694, p.257).
Il libro di Molesworth fu presentato al pubblico inglese come un racconto di viaggio ma l’intenzione era quella di mettere in guardia l’aristocrazia, che nel 1688 aveva espulso Giacomo II, dai pericoli dell’assolutismo. La Danimarca era stata proclamata un regime assoluto nel 1660 dopo la disastrosa sconfitta nelle guerre contro la Svezia. Si potrebbe dire che, in linea di principio, era il regime più assolutista d’Europa, visto che l’assolutismo era esplicitamente sancito nel 1665, cosa che non fu mai fatta nemmeno nella Francia di Luigi XIV. Mettere in guardia contro un destino sinistro era l’intento di Molesworth, perciò si potrebbe accordare poca attenzione alle sue descrizioni così come a quelle dell’amico e contemporaneo Jonathan Swift quando descrive il paese dei lillipuziani. Tuttavia le caratterizzazioni di Molesworth fanno tornare in mente molte delle descrizioni che in seguito sarebbero state dei danesi. Ciò che varia è l’accento posto sulla medietà piuttosto che sull’uguaglianza.
Un altro modo di guardare a questa ideologia di medietà è di accettarla come prerequisito di un consenso popolare necessario perché leggi e riforme funzionino. Nel momento in cui la maggioranza degli intellettuali, in un’Europa di crescenti stati-nazione, parlava della nazionalizzazione delle masse e della necessità di trasformare i contadini in cittadini, Grundtvig sviluppò un’ideologia basata sul concetto di “spirito popolare” che poteva svilupparsi solo in una comunità nazionale storicamente sviluppata e che doveva manifestarsi in un’azione di solidarietà. A livello di discorso ideologico, quanto meno, Grundtvig riuscì a trasformare il sentimento contadino di comunità e solidarietà, tradizionalmente amorfo, in simboli e parole rilevanti per la costruzione di una moderna comunità immaginata.
Attraverso poesie e slogans facilmente ricordabili, come “Freedom for Loke as well as for Thor” [18], Grundtvig riuscì a influenzare la mentalità di un’intera nazione. Il concetto herderiano di nazione, d’altro canto, era indipendente dall’unità statuale, quasi una compensazione per la mancanza di quest’ultima. Come risultato di questa esperienza la tradizione identitaria germanica è basata sulla nozione di popolo, che non coincide necessariamente con gli abitanti del territorio. I danesi che persero le guerre con la Prussia e l’Austria condividevano alcune posizioni ideologiche con i loro nemici tedeschi, ma al contrario dell’esperienza tedesca erano stati indottrinati a scuola e a casa a considerarsi come differenti dagli “oppressori” e “autoritari” tedeschi. A livello discorsivo, cioè al livello conscio e preconscio della cultura politica, i concetti di libertà e uguaglianza hanno avuto un grande impatto. Si tratta delle cosiddette “radici contadine della modernità danese” o della “peculiarità dei danesi”, che aiutano a spiegare molti dei caratteri apparentemente paradossali della vita politica e sociale dei danesi, inclusa la natura anarchica del loro sistema politico. I valori nazionali sono in discussione nell’attuale processo d’integrazione europea e molti danesi temono che essi spariranno quando società, nazione e stato non saranno più contermini. È per questo che i danesi sono stati così riluttanti a partecipare pienamente alla costruzione dell’Europa, non riuscendo a capire quanto recente sia tale identificazione e quanto precaria la situazione geo-politica nel centro Europa all’entrata del mar Baltico. Quando la regione baltica si è aperta all’Europa dopo la caduta della cortina di ferro, antiche tensioni che datavano da prima della nascita degli stati-nazione sono riemerse e hanno messo all’ordine del giorno la necessità di scegliere tra diverse opzioni internazionali possibili.

8. Politica estera e identità nazionale in un piccolo stato
Da molti punti di vista la Danimarca sembra corrispondere alla perfetta illustrazione del concetto di “sicurezza sociale” espresso da Barry Buzan e Ole Wæver; un potere militarmente debole che tuttavia è forte nel senso che è difficile da controllare militarmente in ragione del suo carattere internamente coeso. Non si tratta di una pura coincidenza; l’integrazione sociale e nazionale come alternativa all’armamento militare ha rappresentato la base delle politiche dei governi social-democratici e dei social-liberali che governarono dal 1929 al 1940.
Il ministro degli affari esteri era a quel tempo il social-liberale Peter Munch (1870-1948), che cominciò la sua carriera politica negli anni ’20 come convinto internazionalista e sostenitore della sovranità della Società delle Nazioni. Non fu mai un pacifista dottrinario sebbene la linea ufficiale del suo partito fosse anti-militarista. Al contrario, Munch sembra aver condiviso l’idea che la Società delle Nazioni potesse usare la forza militare, su mandato delle parti coinvolte, nei conflitti internazionali (Pedersen, 1970). Solo quando realizzarono la diffidenza delle grandi potenze e la mancanza di determinazione nella comunità internazionale a sviluppare gli ideali iniziali dell’organizzazione internazionale, Munch e il suo governo di coalizione avviarono una politica di neutralismo non armato verso la Germania.
Munch definì le linee fondamentali della sua politica internazionale in tre letture tenute presso l’Institut Universitaire des Hautes Études Internationales a Ginevra nel 1931. L’argomento principale era l’”autorità morale” delle piccole nazioni, principalmente quelle rimaste neutrali nel primo conflitto mondiale: Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda e Svizzera. Nel pensiero di Munch questi cinque stati erano particolarmente adeguati a “realizzare l’imparzialità che è l’ideale della Società della Nazioni” (Munch 1931, p. 17). Naturalmente si trattava di piccole potenze che non pretendevano di avere la stessa influenza delle grandi ma, arguiva Munch, era possibile un’altra forma di influenza basata su fattori economici e morali.
Una pre-condizione per il dispiegamento di una tale forza da parte di un potere debole era un alto grado di coesione all’interno della comunità nazionale. Il disarmo militare era possibile solo se la società era “forte”, e cioè vaccinata contro le tentazioni totalitarie di destra e di sinistra tramite una forte integrazione sociale. La strategia da utilizzare era quella di neutralizzare le ideologie totalitarie attraverso le forme di uno stato sociale su modello nordico, che costituisse un’alternativa al radicalismo della sinistra tedesca (cfr. le formulazioni di Hartvig Frisch (1893-1950) in Pest over Europa, pubblicato subito dopo l’ascesa di Hitler nel 1933). Solo una società socialmente giusta poteva essere capace, a suo avviso, di resistere ai rischi e alle facili promesse dei vari nemici della liberal-democrazia. Frisch non fu mai un pacifista, tuttavia difese strenuamente la politica di pace e di cooperazione con la Germania e dopo la guerra, sebbene non fosse membro dei più importanti circoli di potere nel partito social-democratico degli anni ’30, Frisch fu il primo a formulare esplicitamente la strategia scandinava di compromesso politico tra gli agrari e i lavoratori organizzati al fine di prevenire il nazismo e il fascismo.
I social-democratici scandinavi svilupparono questa strategia per evitare gli errori dei loro omologhi in Germania e altrove nell’Europa centrale. Nel gennaio del 1933 social-democratici e social-liberali sollecitarono un accordo parlamentare con i conservatori e i liberali. Con un nuovo pacchetto di leggi essi offrirono agli agrari consistenti sussidi per le fattorie e una svalutazione della moneta in cambio di un programma di lavori pubblici e di una normativa sulla sicurezza sociale che includeva in primo luogo un alto sussidio per la disoccupazione. L’obiettivo dell’accordo era originariamente salvare il sistema par-lamentare. Il prezzo includeva alcuni sacrifici politici che furono però accettati in nome dell’idea di preservare l’ordine sociale e la coesione nazionale (Lindström 1985, p. 156). Così cominciò la costruzione della società postbellica. Nel dibattito pubblico che seguì il compromesso, i suoi portavoce ripetutamente richiamarono all’idea di un’al-ternativa agli eventi continentali. Questa politica parlamentare fu promossa esplicitamente in un nuovo programma di lavoro del 1934, intitolato “Danimarca per il popolo”. L’ultimo paragrafo del congresso del partito tenuto nello stesso anno suona così:
We want a Parliament fit for work and thus an active cabinet. We want to work on the basis of the legal, parliamentary foundations and preserve democracy and popular government for the protection of the right to work and of the working-class, and for the protection of the free prosperity and preservation of the Danish nation and the Danish people (Lindström 1985, p. 171).
Il pacifismo di fatto di Munch cadde in discredito nel corso della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione tedesca finita con il movimento di resistenza danese e l’ingresso nella NATO nel 1948. Ex post si deve ammettere che tale politica funzionò, nel senso che la Danimarca fu risparmiata dai drammi della guerra e rimase quasi intatta co-me società democratica, sebbene la sua reputazione morale ne avesse sofferto. L’estrema coesione della società danese scoraggiò i tedeschi dall’idea di installare una sorta di regime come quello di Quisling in Norvegia. Al contrario dell’Olanda il sistema politico danese riuscì anche a mantenere l’amministrazione libera da infiltrazioni naziste. L’elemento principale di questa sopravvivenza come nazione fu l’altro fattore costitutivo della politica non offensiva di Munch, e cioè la strategia di immunizzare la società contro le divisioni provenienti dall’esterno.
In una prospettiva di lungo periodo, la strategia di “sicurezza sociale” funzionò e ha lasciato segni profondi nella psicologia collettiva. Questo è meno vero per gli anni ’30, al momento della creazione del welfare state, ma lo fu particolarmente negli anni ’50 e ’60, quando lo stato sociale socialdemocratico divenne un’alternativa alle due ideologie dominanti della Guerra Fredda. Questa cosiddetta “terza via” fu probabilmente più importante come alternativa ideologica alle fratture di quel periodo di quanto non si ricordi oggi (così sostiene Paul Villaume, 1995). In Danimarca, in particolare, e nei paesi nordici, in generale, quel programma è sopravvissuto al crollo del comunismo, mentre uno stereotipo di supposto modello europeo “cattolico”, “meridionale”, “latino” privo di valori sociali universali, ha preso il suo posto come immagine dominante del “nemico”. Dopo quasi trent’anni di partecipazione alla Comunità Europea, questa immagine gioca ancora un ruolo nel dibattito pubblico. Il problema è che questi stereotipi, forse rilevanti negli anni ’30, sono oggi anacronistici, visto che i restanti stati europei hanno da tempo intrapreso la costruzione di sistemi di welfare. La nuova situazione, tuttavia, non è chiara alla maggioranza dei danesi che ancora considerano la sovranità del loro piccolo stato come se fosse un grande potere con una reale sovranità.

9. “Folk” e “Folkishness”: Società, Popolo, Nazione, Stato e Sovranità nel pensiero politico danese
Se analizzate nel loro contesto storico, le riluttanze dei danesi verso l’integrazione europea diventano meno paradossali. Una forma di ambivalenza ha caratterizzato l’attitudine danese verso l’Europa fin dall’inizio. Solo con riluttanza la maggior parte della popolazione si è fatta coinvolgere nella cooperazione europea da argomenti di necessità economica provenienti dalle élites politiche ed economiche. È mancato tuttavia ogni entusiasmo non solo tra gli intellettuali. La sinistra socialista non crede nell’Europa in nome di uno stato sociale danese considerato come esperienza unica, mentre la destra dubita dell’abilità danese nel competere in termini equi. Questa attitudine difensiva può cambiare, ma non si è ancora tradotta in opinioni politiche significativamente diverse. Perché la scarsa fiducia nell’Europa è stato il tema dominante della politica danese e permea la cultura politica? Un altro modo per sintetizzare la “danesità” di oggi è lo slogan “La Danimarca è una piccola terra”. È quanto i danesi dicono sempre agli stranieri, riprendendo le parole del filosofo della “danesità” N.F.S. Grundtvig, che in un poema del 1820 così descriveva le attitudini danesi al livellamento sociale e alla ricerca di una comune medietà:
Far higher mountains shine splendidly forth

than the hills of our native islands.

But we Danes rejoice in the quiet North

for our lowlands and rolling hills.

No towering peaks thundered over our birth.

It suits us best to remain on earth

( Langt højere Bjerge, trad. dell’autore).
La canzone finisce con una nota di piena auto-soddisfazione:
Even more of the ore, so white and so red (the colours of the flag u.ø.). Others may have got mountains in exchange. For the Dane, however, the daily bread is found no less in the hut of the poor man; when few have too much and fewer too little then truly we have become wealthy” [19].
Non si trattava di un programma di uguaglianza sociale o economica – Grundtvig a quel tempo era un conservatore – tuttavia era un chiaro programma di anti-élitismo politico, che più tardi arrivò a permeare l’ideologia identitaria danese.
In questa versione del discorso nazionale danese c’è una certa nota autoironica, non pretenziosa, difficile da percepire da parte degli stranieri, vista la scarsa considerazione del nazionalismo in Danimarca come nella maggior parte dei paesi europei dopo il 1945. Dal punto di vista ideologico l’identità danese appartiene inequivocabilmente alla famiglia dei discorsi identitari germanici, celtici e slavi, dove, nella tradizione di Herder, l’identità nazionale è concepita in primo luogo in termini di lingua e di cultura. Ciò differisce dal pensiero francese nel quale lo stato-nazione è un concetto centrale e i due termini contribuiscono mutualmente a definirsi (cfr. Renan, 1882). Le nozioni etno-culturali di comunità organica, linguistica o razziale furono dapprima formulate da intellettuali tedeschi del primo Ottocento, che intendevano prendere le distanze da quello che ritenevano il razionalismo superficiale e il cosmopolitismo della cultura illuministica. Questo rifiuto li portava a celebrare il particolarismo culturale. Nel pensiero sociale e politico del Romanticismo le nazioni erano concepite come entità radicate storicamente, sviluppate organicamente, unite da uno specifico Volksgeist.
È in qualche modo sorprendente il fatto che l’unità tedesca realizzata da Bismarck non fosse originariamente ispirata dal nazionalismo e ancor meno da una sua versione etno-culturale (Østergaard 1995b e 1997c). Il concetto herderiano di nazione non prevedeva l’unificazione politica di tutti i tedeschi; al contrario la loro unità culturale compensava la mancanza di uno stato unico. Come risultato di questa esperienza, l’identità nazionale nella tradizione germanica finisce per collegare un popolo che non necessariamente si sovrappone agli abitanti di uno specifico territorio. I danesi invece, dopo aver perso le guerre con la Prussia e con l’Austria, vedevano la preservazione della loro identità legata al mantenimento dello stato sovrano. Quest’ultimo, comunque, era difficile da definire dal punto di vista teorico, visto che i danesi condividevano le loro considerazioni ideologiche con i loro avversari tedeschi. In questo consiste la base teorica che sta dietro i paradossi intellettuali delle attitudini danesi verso la sovranità e l’integrazione.
Questo parallelismo ha lasciato infatti un dualismo profondo nel pensiero politico danese: l’identità danese è profondamente radicata nella lingua e nella discendenza, nel sangue, più che nel suolo, nonostante sia tradizionalmente più facile per uno straniero acquisire la cittadinanza in Danimarca piuttosto che in Germania. In altre parole la Danimarca appartiene al gruppo dei paesi europei etno-nazionali dove la cultura ha la priorità rispetto allo stato nel definire la nazione politica (cfr. Brubaker, 1992). Allo stesso tempo, però, come abbiamo visto, la danesità è sempre stata legata intimamente con l’esistenza di uno stato sovrano. A lungo fu in realtà uno stato di carattere multi-nazionale, ma in ragione della continuità del nome Danimarca la variante danese della nazione etno-politica riuscì in qualche modo a coprire tale preistoria multi-nazionale [20]. La continuità è dimostrata a livello simbolico in molti modi, dal mito delle origini della bandiera danese, che si suppone caduta dal cielo in Estonia nel 1219, all’orgoglio per l’impressionante eredità culturale di Copenhagen, fino alla natura contraddittoria della attualmente non facile coesistenza di tre nazioni nel cosiddetto Rigsfœllesskab, che in realtà è un sottile intreccio di Commonwealth e impero (Østergaard 1996a).
L’attuale identità nazionale è originata dalla sconfitta del 1864 ed è collegata ancor più fortemente che in Francia e in Gran Bretagna all’idea almeno nominale di uno stato sovrano. Questa dipendenza dallo stato spiega le apparenti contraddizioni nella mentalità collettiva e nel comportamento politico di fronte alla prospettiva europea. In una Europa sempre più strettamente collaborante e dalle caratteristiche statuali sempre più disperse, il concetto etno-culturale di nazione sembra mostrare una serie di vantaggi relativi rispetto al concetto fondato esclusivamente su base statuale che troviamo nella tradizionale iden-tificazione britannica con la sovranità del parlamento (Clark, 1991). La nozione francese di identità nazionale repubblicana e statuale può, in altri termini, eventualmente venire a patti con la nuova, più ampia e dispersa, sovranità europea. La grande perdente potrebbe essere proprio la peculiare convergenza danese di stato e nazione. Non è sorprendente allora vedere la maggioranza della popolazione che teme, per diverse ragioni, la perdita della sovranità nazionale, sebbene tale sovranità, in termini reali, sia difficile da percepire per gli osservatori esterni.

10. Piccolo stato, società forte e internazionalismo attivo
La Danimarca presenta in conclusione una serie di veri e propri paradossi. Da una parte la sua politica fino alla seconda guerra mondiale è stata particolarmente attiva nel sollecitare norme internazionali anche in aree considerate di competenza statuale come la sicurezza. Sebbene le Nazioni Unite siano state l’arena principale di questo attivo internazionalismo, la Danimarca non ha aderito soltanto alle azioni delle Nazioni Unite (Holm 1997, p. 65). Negli ultimi dieci anni la Danimarca ha intrapreso una politica di costruzione di una sfera d’influenza nell’area baltica e non agisce più come un piccolo stato, tanto che potrebbe essere chiamata un “non piccolo stato” (Mouritzen 1997, p. 47). D’altra parte, la riluttanza politica verso l’Europa ha pesantemente tagliato le sue possibilità di utilizzare il quadro internazionale per le difficoltà nello stringere forti alleanze con altri membri della Comunità. La base di questo apparente paradosso è una forte soddisfazione dell’essere danese diffusa tra la popolazione, unita a una considerazione negativa della cittadinanza europea [21].
Il problema principale, tuttavia, è il fatto che l’idea di Danimarca non è affatto inequivoca. Da un lato il nome si riferisce a un tipico stato-nazione multi-nazionale con un ruolo risalente nella politica europea; dall’altro lo stesso nome si riferisce a un, pur atipico, piccolo stato-nazione. Tale dualismo è perfettamente riflesso nell’uso di due inni nazionali (cfr. Knudsen, 1992). Il primo è Kong Christian (Re Cristiano), scritto da Johannes Ewald nel 1779, una canzone marziale dedicata al sovrano guerriero che sconfisse i nemici del paese (e gentilmente dimentica del fatto che egli finì per perdere tutto). L’altro inno è Dar er et yndigt land (È una bella terra), scritto nel 1819 dal poeta romantico Adam Oehlenschlager che canta le bellezze di questo pacifico e amichevole paese e dei suoi abitanti. Il secondo è generalmente cantato nelle partite nazionali di football. La Danimarca, i danesi e il consenso nazionale danese sono così stretti tra nozioni competitive e antagonistiche di “danesità”.

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(traduzione di Carlotta Sorba)
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NOTE
1- I concetti di “piccolo stato” e “piccolo potere” sono analizzati, per la Danimarca in particolare, in Branner e Kelstrup 2000. Secondo Branner, “un Piccolo Potere è uno stato che riconosce di non poter ottenere sicurezza in prima istanza usando le proprie capacità e che deve collegarsi all’aiuto di altri stati, istituzioni, processi o sviluppi per farlo” (H. Branner 1972, p. 24). Il libro di Branner sulla Danimarca allo scoppio della prima Guerra Mondiale è il lavoro fondamentale in cui si sviluppa la tesi del piccolo stato e fornisce un’introduzione sulla letteratura internazionale relativamente a quel concetto.
2- I lettori orientati sociologicamente notino che per gli storici i termini “accidente” e “coincidenza” non possono essere confusi col puro caso. Al contrario si riferiscono a risultati che possono essere spiegati ex post, ma che difficilmente possono essere previsti, come la combinazione di fattori strutturali coincide solo a causa di una particolare congiuntura storica. Il rapido crollo dell’Unione sovietica tra 1989 e 1991 è il principale esempio di sviluppo che gli storici possono definire “accidentale” in questo senso (cfr. Østergaard, 1997d, sull’uso dell’analisi controfattuale nelle spiegazioni storiche).
3- Stati-nazione sono gli stati territoriali costituitisi nella prima Europa moderna, in particolare occidentale, tra il 1500 e il 1800. Alcuni di questi si sono poi sviluppati in stati-nazioni dotati di un’identità nazionale costituita. La distinzione tra stato-nazione e nazione-stato data dal classico contributo di Hans Kohn (1944) The Idea of Nationalism, è stata sviluppata da Hobsbawm (1990). La confusione terminologica in proposito aumenta per il fatto che in Francia il nation-state è definito état-nation. Molti stati-nazione erano organizzati in unioni monarchiche o in stati compositi (vedi la nota seguente).
4- “Stato composito” è divenuto un termine tecnico per definire gli stati territoriali della prima età moderna. Per una definizione ed elaborazione del concetto britannico di sovranità vedi J.C.D. Clark, Britain as a composite state, in Østergaard 1991, pp. 55-84. La natura dello stato composito britannico è ancora elaborata da Clark, English History’s Forgotten Context: Scotland, Ireland, Wales, in “Historical Journal”, 1989, 32, pp. 211-228; per un’analisi del fenomeno nel contesto europeo vedi H.G. Koenigsberger, Composite states, Representative Institutions and the American Revolution, in “Historical Research”, 1989, 62, pp. 135-153 e J.H. Elliot, A Europe of Composite Monarchies, in “Past and Present”, 1992, 137, pp. 48-71. Denominazioni alternative sono “stati conglomerati” o “regni multipli”. I primi tentativi di applicare tali concetti alla storia nordica e danese sono di O. FeldbŒk, Clash of Culture in a Conglomerate State: Danes and Germans in XVIII century Denmark, in Clashes of Culture, a cura di C.V. JOHANSEN et al., Odense University Press, 1992, pp. 80-93 e J.R. Rasmussen, The Danish Monarchy as a Composite State, inEuropean Identities, Cultural Diversity and Integration in Europe since 1700, a cura di N.A. SØrensen, Odense University Press, 1995, pp. 23-36.
5- P. UNWIN, 1996, p. 9. Sembra essere stata una vera tradizione degli ambasciatori britannici lo scrivere resoconti sulla identità danese, da Robert MOLESWORTH, An Account of Denmark as it was in the year 1692, 1694, fino a James MELLON, Og gamle Danmark, 1992, non pubblicato in inglese.
6- Le citazioni sono tratte ancora da P. UNWIN, Baltic Approaches, Norwich, M. Russel, 1996, pp. 208, 209-210, 211-212.
7- Un’utile indicazione sulla natura composita dello stato danese è costituita dagli anni di fondazione delle università dello stato multinazionale prima della sua dissoluzione finale nel 1864: Copenhagen fu fondata nel 1479, Kiel nel 1665 (strettamente parlando l’università di Kiel fu fondata come università di lingua tedesca dal duca Christian Albrecht di Gottorp, cioè da un vassallo del re danese che nello stesso tempo agiva come suo avversario alleato con i nemici svedesi. Dopo l’incorporazione dello Schleswig e Holstein nella monarchia l’università continuò come tedesca ma i suoi laureati furono qualificati come funzionari civili in tutta la monarchia, anche dopo l’introduzione del cosiddetto Atto di diritti indigeni nel 1776, sul quale cfr. LANGE 1996, p. 224); l’università di Kristania (Oslo) fu fondata nel 1811; quella di Frederiksnagore (Serampore) nel 1821-1827. Anche dopo la fine dello stato composito le università furono fondate in molte parti del regno rimasto. Esse includevano l’università dell’Islanda a Reykjavik nel 1911 e quella a Toshavn nelle isole Farœ nel 1952-1965. Un altro esempio del significato nazionale di queste sedi è la fondazione dell’università nel vicino Lund nel 1668. Nel medioevo il Lund era stato il centro ideologico della monarchia danese come sede dell’arcivescovado. Quando il re danese fu costretto a cedere le province di Skaane, Alland, Blekinge Bohuslen e Jemtland alla Svezia nel 1658, lo stato svedese fondò una nuova università per costituire una alternativa all’università di Copenhagen nel preparare i numerosi nuovi religiosi necessari per sostituire i precedenti indottrinatori danesi. Solo nella Svezia del 1820 fu permesso di varcare le frontiere e visitare la Danimarca. La logica politica dell’università nel Lund era quella di educare una nuova generazione di religiosi che aiutassero a svedesizzare la popolazione contadina di lingua danese. Come si vide più tardi la Svezia ottenne un sorprendente successo in questo tentativo abbastanza unico di rinazionalizzare quella provincia (cfr. ABERG ? 1994).
8- Cfr. B.O. StrÅth, Scandinavian Identity: a Mythical Reality, in Sørensen, cit., pp. 37-57; ID., Illusory Nordic Alternative to Europe, 1980, pp. 103-114.
9- Nella opinione di Moore i piccoli stati possono essere disgregati negli studi comparativi in ragione della loro mancanza di originalità e di importanza (MOORE 1966, X). La scarsa importanza che Moore attribuisce alla storia dei piccoli stati è certamente discutibile, e ne ho discusso in altra sede. Egli usa il termine “piccolo stato” come una caratterizzazione storico-sociologica piuttosto che come un termine indicativo di minori capacità militari ed economiche nella politica internazionale (ØSTERGAARD, 1991b).
10- Un logico corollario di questo fraintendimento è il non riconoscimento delle differenze nello stato-nazione risultante. La Danimarca divenne uno stato altamente centralizzato ma nel corso dell’’800 i tentativi di trasformare la monarchia multinazionale in uno stato federale così come i più tardi progetti federalisti non possono essere ignorati, come ha dimostrato Steen Bo Frandsen in una importante analisi sulla questione dello Jutland (FRANDSEN 1993 e 1996; ØSTERGAARD 2000).
11- In questo contesto il termine gramsciano “egemonia” viene usato in un modo relativamente preciso come terminus technicus per quelle forze che hanno la capacità di stabilire i termini del discorso in una società data. Antonio Gramsci lo ha utilizzato per indicare come un gruppo minoritario sia stato capace di esercitare potere su una società con interessi differenti e spesso conflittuali. I tre stati baltici, con le loro differenze interne, possono servire come punto di riferimento per studi comparativi delle attitudini politiche popolari. Comunque, il parallelismo non deve essere sovrastimato poiché il background storico di attitudini apparentemente simili è molto diverso (KIRBY 1990 e 1994).
12- La Norvegia, naturalmente, ha una lunga storia come stato indipendente. Per molti versi la monarchia norvegese medievale può essere considerata lo stato più centralizzato e unitario del medioevo nord-europeo. In ragione di un disastro insieme ecologico e sociale avvenuto nel XIV secolo, tuttavia, le sue élites native si estinsero e lo stato cadde sotto l’egemonia danese e dell’Holstein per quasi 400 anni.
13- Per il concetto di “memoria collettiva” si veda Maurice Halbwachs (1925 e 1950). A sua volta Pierre Nora lo ha assunto come punto di partenza per la sua massiccia investigazione dei cosiddetti “luoghi di memoria” francesi (Nora, 1984-1992). Una introduzione danese ai vari aspetti del ricordo e dell’oblio nella vita delle nazioni, dei gruppi e degli individui si può trovare in B.E. Jensen et al., 1996.
14- Secondo la recente, originale ricerca di Gunner Lind e altri, l’origine strutturale di queste innovazioni legali data fin dalle guerre avvenute tra il 1614 e il 1662, versione danese dell’ampia rivoluzione politico-militare europea del XVII secolo (Lind 1994, 1992).
15- Sul Gesamtstaat e lo sviluppo storico dello stato danese-tedesco si veda Der danische Gesamstaat: Kiel – Copenhagen – Altona. Wolfenbütteler Studien zur Aufklärung, a cura di K. Bohnen – S.A. JØrgensen, Tübingen, 18, 1992. Su Danimarca – Norvegia come Gesamstaat si veda FeldbÆch 1998-1999.
16- L’intreccio dei due significati del termine è da me applicato in numerose analisi del processo in Danimarca. Una presentazione generale della letteratura teorica sulle identità nazionali si trova in Østergaard 1996d e in Hettne – Sörlin – Østergaard 1998.
17- Mouritzen usa questi termini in un’analisi recente della politica estera danese (Mouritzen 1997). Un’altra prospettiva possibile è quella di sottolineare le origini della particolare versione nordica dell’illuminismo tra i religiosi locali, così come fanno Nina Witoszek e altri in The cultural construction in the Nordic countries, a cura di B. Stråth – O. Sørensen (1997). Più tardi la relazione tra welfare state e luteranismo è stata investigata con maggiori dettagli (Østergaard 1998; Knudsen 2000).
18- N.F.S. Grundtvig, Prefazione a Nordens mythologi, 1832, Udvalgte Voerker I.
19- N. F.S. Grundtvig, Langt hojere Bjerge, 1820 (traduzione dell’autore).
20- Questa interpretazione ha costituito la struttura ideologica portante della storiografia danese: cfr. Østergaard (1992b), Engman (1991), Kjærgaard (1989) e Rasmussen (1995).
21- Un quadro comparativo di queste posizioni nei vari stati membri della Comunità si trova in Citizen attitudes towalds europe, in “Eurobarometer”, 1996, 45, pp. 86-104.

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