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Terrorismo e informazione

Coordinatore: Mirco Dondi (Università di Bologna)
Sabato 24 settembre
III Sessione: 9.00-13.00
Aula 2

L’obiettivo di questo seminario è quello di avviare una prima riflessione storica sulla relazione fra i fenomeni terroristici, intesi nel loro senso più ampio, e le strategie di informazione. Le relazioni si riferiscono, in linea di massima, al periodo 1969 –1980, decennio nel quale maturano gli episodi più acuti di terrorismo in Italia e in Germania. Si parte da un confronto sull’ammissibilità di un termine polisemico e ambiguo come quello di terrorismo, che, nell’ipotesi iniziale, si ritiene un termine deputato ad assolvere a una funzione politica, più che a rivestire un valore analitico. In parallelo si delinea il corso di un altro termine di confronto impiegato dai giornali: la strategia della tensione. Le relazioni approfondiscono episodi diversi che hanno come quadro prevalente di riferimento il terrorismo di destra. Da questo punto di vista si prendono in esame le prese di posizione della pubblicistica di destra, a partire dal “Secolo d’Italia”, che mostra un’apparente presa di distanza dall’atto terroristico, pur senza avviare alcun processo di revisione critica dei postulati ideali, politici e storici dai quali muovono i terroristi di destra. Si cercherà di valutare come matura, nella pubblicistica di destra, la depoliticizzazione dell’atto terroristico quando un’azione appartiene al terrorismo nero o, viceversa, come si costruisce la colpevolizzazione del nemico nelle vicende inizialmente più ambigue, come nel caso della strage di Peteano. Su queste vicende si valuterà anche l’orientamento del giornale della borghesia italiana, “Il Corriere della sera”, con le sue evoluzioni nel corso del tempo. Alla luce degli eventi proposti, si cercherà di valutare quanto gli organi di informazione (di destra, di sinistra o indipendenti) siano autonomi, quali tipi di condizionamento subiscono, quale margine di autonomia conservano e qual è l’influenza che le prese di posizione dei media hanno sulla pubblica opinione.

Programma
  1. Aldo Giannuli (Università di Bari) – La categoria del terrorismo: la sua pertinenza storica e l’uso adottato dai mezzi di informazione

    Il termine terrorismo assolve a precise funzioni politiche e non ha alcun valore da un punto di vista analitico. Esso infatti, risponde alla esigenza di isolare i “terroristi” sia dall’opinione pubblica (e qui si coglie il contenuto fortemente emotivo del termine) sia verso “terzi” soggetti politici (partiti, Stati ecc.). In effetti “terrorismo” non è che la riproposizione, in epoca contemporanea, del concetto di pirateria: come il pirata del XVI secolo -cui nessun porto doveva offrire approdo-, il terrorista dei nostri giorni è l’ “hostis humani generis” cui va negato asilo politico ed ogni forma di aiuto anche solo politico. Naturalmente questo comporta che quelli che per alcuni saranno terroristi, per altri saranno “combattenti per la libertà”: il terrorismo, per definizione, è sempre quello altrui. Ogni guerra è anche guerra psicologica e, dunque, è abbastanza naturale che autorità politiche e militari ricorrano a termini del genere per ottenere determinati effetti politici, giuridici e militari, quello che, invece, non è plausibile è l’uso di una categoria del genere in sede scientifica (storica, politologica, sociologica ed anche giuridica) per comprendere e spiegare fenomeni complessi fra loro assai diversi. Appare opportuno, su un piano scientifico, elaborare categorie avalutative (e terrorismo certamente non lo è) in grado di descrivere una tipologia di queste forme di “guerra irregolare” idonea a distinguere i diversi fenomeni attualmente assemblati sotto l’etichetta generica e fuorviante di terrorismo.

  2. Loredana Guerrieri (Università di Macerata) – Le strategie di destabilizzazione viste nella pubblicista dell’estrema destra

    L’eversione di destra appare un fenomeno variegato e multiforme, una realtà policentrica in continuo movimento. Tuttavia – anche se risulta azzardato effettuare delle semplificazioni – nella seconda metà degli anni settanta vi fu un cambiamento decisivo negli atteggiamenti strategici eversivi dell’estrema destra. Se nella prima metà del decennio, i nemici erano il PCI e i movimenti di sinistra, successivamente l’obiettivo divenne «ottenere la disarticolazione del potere» statale. I fattori che portarono a questa modificazione furono numerosi, ma giocarono un ruolo essenziale la contestazione del ’77, l’avvento di nuove generazioni di attivisti, il mutamento dell’atteggiamento del potere ufficiale verso i movimenti neofascisti e nuovi riferimenti culturali. Soffermandosi nell’analisi delle cause e delle modalità che originarono questo diverso uso della violenza politica da parte dell’estrema destra, si sono prese in considerazione due riviste: Costruiamo l’Azione e Terza Posizione. Da un’attenta lettura degli articoli di questi due giornali, – dietro i quali si muovevano due omonimi gruppi – emerge una forte carica antisistema e l’intenzione di creare un «attacco diffuso» allo Stato. Le strategie proposte per ottenere la completa «eversione del sistema», appaiono molto simili a quelle auspicate già da Franco Freda, che, insieme alla sua Disintegrazione del sistema, divenne per quei giovani militanti di estrema destra uno dei maggiori punti di riferimento culturale. Come Freda essi prospettavano di «accelerare l’emorragia e sotterrare [definitivamente] il cadavere», rappresentato dal sistema borghese, proponendo un originale «fronte unico rivoluzionario». Negli anni della «guerra degli opposti estremismi», offrirono una tregua ai propri coetanei di estrema sinistra e nella convinzione che il nemico – lo Stato – fosse comune, erano intenzionati ad unire le «forze antisistema» di estrema destra ed estrema sinistra. Al di là degli esiti concreti che queste proposte strategiche riuscirono ad ottenere, è risultato interessante evidenziare che, almeno apparentemente, i tradizionali schemi “cospirativi” spesso utilizzati in passato da chi “coltivava” a destra progetti eversivi, vennero abbandonati – fra la metà degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta – per realizzare una “spontaneistica” via rivoluzionaria né sotterranea, né occulta, ma palese.

  3. Mirco Dondi (università di Bologna) – Il compromesso del silenzio. Vuoto di informazione e reazioni al tentato golpe Borghese

    Sull’ammissibilità del nesso golpismo – terrorismo, alla luce della confluenza tra il vecchio fascismo reducista e le nuove leve dell’eversione nera, è incentrata la prima parte della relazione sul tentato golpe Borghese avvenuto nella notte fra il 7 e l’8 dicembre 1970. Il golpe Borghese resta una tra le vicende rimaste più oscure, sulla quale la storiografia ha espresso giudizi contrapposti, nella divisione tra chi vi ha privilegiato l’aspetto farsesco e chi l’ha ritenuto il tentativo più serio di conquista del potere mai attuato in Italia. Nel progettato golpe non soltanto una delle chiavi di accesso è, per la prima volta, l’occupazione della Rai -di cui si conserva il proclama che gli autori avrebbero dovuto leggere-, ma anche una strategia preparatoria collaterale con l’esecuzione di attentati “minori”, volti a creare nell’opinione pubblica un desiderio di “ordine”. L’elemento più originale, per il rapporto fra terrorismo e informazione, si crea con il concordato black out informativo tra Dc e Pci sull’esistenza dell’evento. Quando il Pci decide di diffondere la notizia, lo fa attraverso un giornale collegato -“Paese sera”- e non con il suo organo di partito. La notizia provoca una reazione anomala (presidi, difesa delle sezioni), come se il golpe stesse per attuarsi.

  4. Luca Pastore (Cedost) – La strage di Peteano sul “Corriere della Sera”, “l’unità” e il “Secolo d’Italia” dal 1972 al 1990

    Il 31 maggio 1972 lo scoppio di una Fiat Cinquecento riempita di esplosivo uccideva tre carabinieri e ne feriva altri due nei dintorni di Peteano di Sagrado, in provincia di Gorizia. La strage di Peteano viene considerata un episodio chiave nella storia italiana perché la lunga inchiesta a cui diede vita mise in luce le tendenze eversive del mondo neofascista e le complicità di cui poteva godere quest’ultimo negli anni della strategia della tensione. Le cronache giornalistiche, dedicate ad alcuni passaggi chiave della vicenda, restituiscono un panoramica molto articolata sul terrorismo di estrema destra, sull’azione di contrasto dello stato e sui mezzi di comunicazione. Il Corriere della sera, il Secolo d’Italia e l’Unità, per le oggettive differenze che li contraddistinguono, sono i quotidiani scelti per analizzare non solo il dipanarsi degli eventi, ma anche l’ottica offerta al lettore, gli elementi valorizzati e quelli trascurati, l’atteggiamento assunto in uno dei periodi più duri della Repubblica. Nell’immediatezza della strage, il cronista del Corriere, giornale storicamente moderato, fu estremamente prudente e non si sbilanciò sulle responsabilità, dando ampio spazio alla voce degli inquirenti. Il Corriere, d’altro canto, perse ogni cautela quando i carabinieri arrestarono sei giovani goriziani. Per la verità, il cambio di linea coincise solo con gli articoli scritti da Giorgio Zicari nei due giorni successivi ai fermi. Zicari espose una notevole mole di particolari sulle indagini e avvallò la tesi della malavita comune. L’Unità, quotidiano del Partito comunista italiano (Pci), avanzò i suoi dubbi sull’attentato, senza rinunciare a darne una caratterizzazione politica in chiave di trama nera pur senza averne alcun elemento per dimostrare la sua ipotesi. Il Secolo d’Italia, organo del partito di destra Movimento sociale italiano (Msi), tenne un comportamento diametralmente opposto. La strage veniva attribuita senza alcuna remora ai “rossi”, ai comunisti, considerati una vera forza anti-stato.

  5. Marica Tolomelli (Università di Bologna) – Terrorismo e informazione nella Germania federale degli anni Settanta

    A tre giorni dal sequestro di Hanns-Martin Schleyer da parte di un Kommando della RAF (5..9.1977), il portavoce del governo tedesco, il sottosegretario Klaus Bölling, trasmetteva un appello a tutti gli organi dell’informazione pubblica (stampa, radio e televisione) affinché collaborassero nell’esercizio delle loro funzioni a sostenere gli sforzi che il governo si apprestava a compiere nella duplice lotta, per la salvezza di Schleyer da un canto e contro il terrorismo dall’altro. La richiesta concreta consisteva nell’assunzione di un forte “senso di responsabilità” da parte dei mass media che di fatto doveva tradursi in una sorta di autocensura relativamente alle indagini sul sequestro e gli sviluppi in corso. La ragione principale di tale invito risiedeva nel desiderio di sottrarre ai sequestratori una potenziale strumentalizzazione dei mass media ai propri fini. E’ noto infatti, ed era noto anche allora, che tra le formazioni terroristiche e gli organi di informazione tedeschi esistesse, analogamente al caso italiano, un rapporto di tipo strumentale e per certi versi anche di grande complicità, nel senso che anche il terrorismo tedesco, e forse in misura maggiore di quello italiano, calibrava le proprie azioni, pianificava le proprie strategie d’azione anche e non da ultimo sulla base dei riscontri mediatici che esse potevano sortire. I canali dell’informazione pubblica costituivano a questo riguardo una delle variabili dipendenti di cui tenere fortemente conto nella messa a punto di azioni che potessero avere il massimo impatto su i più vasti settori sociali. Gli organi dell’informazione, a loro volta traevano grandi vantaggi da attori sociali in grado di far scrivere o parlare tanto, in grado cioè di produrre notizie che irrompessero in maniera sconvolgente sulla vita quotidiana, suscitando così anche il desiderio di parlare, discutere e scrivere sugli eccezionali eventi. Sotto questo profilo il rapporto terrorismo-informazione può essere pertanto colto nella sua essenza primaria, cercando di evidenziare quale immagine pubblica di sé il terrorismo ha cercato di trasmettere, e quale invece ne è stata costruita dai mezzi di comunicazione di massa nel complesso ed articolato processo di formazione dell’opinione pubblica su tale soggetto L’invito del portavoce del governo andava tuttavia a inserirsi all’interno di un’altra grande questione – quella della concentrazione quasi monopolistica della stampa tedesca e dunque della “manipolazione dell’informazione” e dunque della “manipolazione delle coscienze” – che sin dalla metà degli anni Sessanta animava, preoccupava e in alcuni casi agitava alcuni settori della società tedesca. Soprattutto nel campo intellettuale e in diversi ambienti della sinistra extraparlamentare (ma anche all’interno della stessa SPD) era forte la sensazione che con l’appello del portavoce Bölling il governo stesse imponendo ai propri cittadini un vero e proprio black out informativo, che basandosi su un presunto rapporto di delega e fiducia con le forze dell’esecutivo finiva per trasformarsi in una sorta di “cambiale in bianco” sui provvedimenti legislativi e giudiziari in materia di antiterrorismo. Non sorprende pertanto se nei 44 giorni del sequestro Schleyer si scatenò un acceso dibattito sulla libertà di informazione in Germania, assumendo gli inviti del governo come una prova lampante delle fragili fondamenta democratiche della Bundesrepublik. L’analisi e la ricostruzione storica del rapporto terrorismo-informazione saranno pertanto affrontate come una questione in un certo senso esemplare della cultura politica del consenso che aveva dominato la Aufbauphase della BRD e che proprio negli anni Settanta pareva essere entrata in una situazione di irreversibile crisi. Obiettivo ultimo della relazione sarà insomma quello di partire dall’analisi del rapporto tra terrorismo e informazione per giungere, in conclusione, a porlo in relazione con il problema della legittimazione dello Stato e del rapporto tra cittadini e governanti nel particolare contesto storico della Germania (occidentale) degli anni Settanta.

Discussant: Giovanni de Luna (Università di Torino)