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Tommaso Detti

Sugli aspetti più generali del sistema di reclutamento introdotto dalla legge 210/1998 mi sono espresso prima della sua applicazione (cfr. “Il Mulino”, 1999, n. 4, pp. 705-8) e, avendo avuto la magra soddisfazione di veder confermato ciò che avevo scritto, non ho molto da aggiungere. Mi soffermerò invece sui problemi che più specificamente interessano la Sissco e cioè sul settore scientifico-disciplinare di Storia contemporanea.
Sommando i concorsi espletati, quelli in via di svolgimento e quelli banditi entro agosto per la seconda sessione 2000, siamo in presenza di 9 concorsi a ricercatore (per 10 posti), 26 ad associato (verosimilmente pari a 78 idonei) e 28 a ordinario (84 idonei). In tutto 63 concorsi per 172 posti, 75 dei quali nelle Facoltà di Lettere, 28 a Scienze politiche, 24 a Lingue, 19 a Scienze della formazione. La classifica delle sedi vede in testa Lecce con 15 posti, Bari, Bologna e Salerno con 12, Cagliari e Firenze con 9. Che si tratti di una vera e propria slavina può bastare a confermarlo un confronto con Storia medievale (10 concorsi a ricercatore, 6 ad associato e 3 ad ordinario per un totale di 37 posti) e con Storia moderna (6 concorsi a ricercatore, 10 ad associato e 8 a ordinario per un totale di 60 posti). Naturalmente andrebbe tenuta presente la diversa consistenza originaria dei tre settori, ma le differenze sono comunque eclatanti.
Perché tanti concorsi di Storia contemporanea? A mio parere il primo motivo risiede in un impegno didattico particolarmente rilevante: evidentemente le facoltà, alle quali compete bandire i concorsi, premiano con una promozione a basso costo i cirenei che da anni si sobbarcano montagne di esami e di tesi. Lo conferma lo squilibrio tra i posti in palio nelle tre fasce, che prova come il reclutamento di forze nuove sia ridotto davvero ai minimi termini. Non ho un elenco nominativo dei docenti in servizio prima del varo del nuovo sistema, ma uno sguardo alla lista degli idonei delle prime due fasce dice che essi erano già tutti o quasi tutti nei ruoli dell’università. Vero è che l’incertezza sul futuro del ruolo dei ricercatori può aver indotto alcune facoltà a rinviare questi concorsi in attesa dell’approvazione della legge sullo stato giuridico; e certo è lo stesso meccanismo concorsuale a penalizzare il reclutamento. Il fenomeno è tuttavia molto più accentuato a Storia contemporanea che a Storia moderna e, soprattutto, a Storia medievale.
Che troppo spesso le facoltà bandiscano concorsi senza tener conto del profilo scientifico dei candidati interni indica che l’autonomia universitaria non ha ancora prodotto adeguati livelli di responsabilizzazione. Ciò peraltro, assieme a un numero di concorsi al limite della gestibilità, segnala anche che le facoltà non hanno alcun interlocutore rappresentativo della disciplina al quale riferirsi. Non conosco i rapporti interni alla Storia medievale e alla Storia moderna, ma visti da fuori questi settori danno l’impressione di svolgere in qualche modo un ruolo di interlocuzione nei confronti delle facoltà e di tenere in misura maggiore o minore la situazione “sotto controllo”. Se questo è vero, ciò significa che tra i vari gruppi nei quali anche quei settori sono divisi funziona qualche forma di confronto e di mediazione, che consente loro di esercitare un controllo sulle progressioni di carriera e sugli accessi alle rispettive discipline.
Niente di tutto ciò esiste nel settore di Storia contemporanea, al cui interno hanno sempre pesato in misura molto maggiore divisioni per linee essenzialmente ideologico-politiche. Non avrei mai creduto di dover rimpiangere il sistema concorsuale precedente, ma devo riconoscere che l’esistenza di una sola commissione nazionale che disponeva di un numero limitato di posti costringeva gli esponenti dei diversi gruppi a confrontarsi tra loro e a trovare mediazioni ed accordi. Anche quelli non erano veri concorsi, aperti a tutti e coronati dalla vittoria dei più meritevoli; i meccanismi che li regolavano erano discutibilissimi e non a torto sono stati duramente criticati. Se non altro, però, si trattava di un sistema di cooptazione gestito da commissioni che non potevano essere espressione di una sola cordata.
Specie in presenza di un elevato numero di bandi e in assenza di forme di coordinamento all’interno dei settori disciplinari, il nuovo sistema fa invece sì che ogni cordata gestisca i propri concorsi senza interferire con le altre e senza doversi confrontare con colleghi che seguano criteri di valutazione diversi dai propri. Non a caso a Storia contemporanea, per essere eletti, bastano in media 12 voti nei concorsi a prima fascia, 17 per gli ordinari e 18 per gli associati in quelli a seconda fascia, 24 per gli associati e 25 per i ricercatori in quelli a terza fascia, dove i commissari designati sono tutti ordinari. Ma a ben guardare, visto che il sistema incentiva lo scambio dei voti, questi dati non sono particolarmente significativi. Ciò che più conta è la pressoché totale assenza di competizione tra gli aspiranti commissari: se non vado errato, soltanto in un caso si sono visti più professori contendersi un posto in una commissione. Non sorprende dunque che non vi sia alcuna competizione neppure tra i candidati, spinti anch’essi a partecipare soltanto ad alcuni concorsi.
I risultati di tutto ciò sono sotto gli occhi di chiunque voglia darsi la pena (perché di questo si tratta) di analizzare i dati disponibili. In due sole tornate abbiamo avuto 45 idonei alla prima fascia e 24 alla seconda, dei quali rispettivamente 26 e 10 si sono già aggiunti a un’ottantina di ordinari e a circa 140 associati. Tra i vincitori vi sono naturalmente studiosi più che meritevoli, ma nel complesso questa grande infornata ha prodotto un sensibile abbassamento del livello qualitativo della disciplina, i cui effetti non mancheranno di risentirsi in futuro. I giovani ricercatori sono rimasti quasi tutti fuori dalla porta e un giustificato discredito sta addensandosi sul settore di Storia contemporanea.
Che fare dunque? Nella prospettiva che almeno per un po’ l’attuale meccanismo concorsuale non venga modificato, a questo interrogativo si possono dare risposte diverse. Qualcuno potrebbe decidere di chiamarsene fuori, ma secondo me ciò equivarrebbe a un’abdicazione di responsabilità, tanto più che anche con il vecchio sistema meritare di vincere un concorso era condizione non necessaria e non sufficiente: con rarissime eccezioni, occorreva essere “portati”. Sul piano individuale credo che ciascuno debba fare la sua parte, accettando di sporcarsi le mani per cercare di dare un’interpretazione il più possibile “alta” e coerente del proprio ruolo. Vi sono state e continueranno ad esserci commissioni che conferiscono l’idoneità a studiosi meritevoli, così come vi sono state e continueranno ad esserci facoltà che li chiamano, anche se nei limiti sempre più esigui del loro budget. Non credo tuttavia che possiamo limitarci a questo, né ad assumere atteggiamenti deprecatori o a consolarci auspicando l’avvento di “veri” concorsi.
Forse non è un caso che per aprire una discussione su questi problemi la Sissco abbia interpellato i cinque colleghi eletti lo scorso anno a far parte di una “consulta” accademica, che alcuni di noi avevano tentato di costituire in primo luogo proprio per far fronte ai prevedibili effetti dell’entrata in vigore di questo sistema concorsuale. L’obiettivo era quello di dar vita a una sede di incontro tra i contemporaneisti che promuovesse una discussione sui criteri, operasse per limitare il numero dei concorsi e divenisse un momento di confronto e di mediazione fra singoli e gruppi: in sostanza di costituire un’istanza di controllo “corporativo” della disciplina su se medesima. Quel tentativo è stato forse tardivo, i suoi promotori (fra i quali mi annovero) hanno certo commesso degli errori e troppi colleghi si sono mostrati disinteressati o poco consapevoli della posta in gioco. Sta di fatto che una bassa affluenza al voto (33 ordinari su 81) ha privato gli eletti di una legittimazione adeguata, inducendoli a non accettare il mandato e condannando l’iniziativa al fallimento.
Personalmente mi auguro che il discorso possa essere riaperto, magari in forme diverse e per iniziativa di altri. I motivi per essere pessimisti non mancano, a partire dalla banale considerazione che di solito, dopo una battuta d’arresto, deve passare del tempo perché un nuovo tentativo abbia maggiori possibilità di successo. Ciò nonostante continuo a ritenere una prospettiva del genere non soltanto auspicabile, ma forse anche la sola perseguibile per tentare di invertire la rotta. Diversamente non ci resterà che sperare che l’autonomia faccia il suo corso, che i concorsi nazionali vengano aboliti assieme al valore legale dei titoli di studio e che finalmente le facoltà siano chiamate ad assumersi sul serio la responsabilità delle proprie scelte. Ammesso che tale possa essere l’esito finale di questa vicenda, tuttavia, i danni che nel frattempo dovranno essere pagati rischiano di essere gravissimi, a partire dall’esclusione dall’università di un’altra generazione di giovani studiosi di storia contemporanea.