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Ugo Fabietti

Università di Milano – Bicocca

Confini / Grenzen

Convegno di studi / Studientagung

Bolzano-Bozen, 23-25 settembre/ 23.-25. September 2004

La costruzione dei confini in antropologia: pratiche e rappresentazioni
Usi referenziali e metaforici del termine “confine”

In antropologia il termine confine viene utilizzato con significati diversi, tanto referenziali quanto metaforici. Il termine viene inoltre usato sia in relazione agli oggetti dell’antropologia, sia allo scopo di definire alcune caratteristiche della disciplina. Viene ad esempio utilizzato con un valore maggiormente referenziale nelle discussioni sui gruppi sociali, culturali e etnici; sulle distinzioni di genere; sulle autodefinizioni del sé e dell’altro, sia individuale che collettivo. L’impiego metaforico del termine confine (dove spesso questa nozione si sostituisce o si affianca a quello di frontiera) serve invece a evocare certe caratteristiche della disciplina, che in più occasioni è stata presentata come un sapere “del confine” e “di frontiera” (Fabietti 1999; Remotti 2000).

L’antropologia studia infatti il modo in cui le società umane costruiscono, attraverso pratiche e simboli, il confine tra la sfera umana e quelle animale e divina, e riflette anche su come le diverse società, mediante riti, pratiche sociali, saperi, tecniche del corpo ecc. sviluppino forme d’identità collettiva distinte da altre. Sul versante degli usi più metaforici del termine, l’antropologia può anche essere definita come un sapere “di confine” e “di frontiera”. Tale qualifica le deriva da una forma di marginalità rispetto alla tradizione di pensiero da cui si è sviluppata: essa ha infatti la pretesa di porsi, nel suo sforzo di comprensione dell’alterità, “al di fuori” di tale tradizione, e quindi di essere un sapere disposto all’ “attraversamento del confine” [1 ].

Lasciando da parte gli usi più esplicitamente metaforici dell’uso del termine “confine”, e concentrandoci invece su quelli più referenziali, potremmo iniziare col dire che la distinzione da un lato, e l’identificazione e la mimesi dall’altro, sembrano essere di fatto gli aspetti opposti, ma complementari, di quel continuo processo di “costruzione di confini” che pare accompagnare l’intera storia umana. Che si tratti di definire un’appartenenza all’umano piuttosto che a un Sé collettivo, tali definizioni sono sempre il risultato della messa in atto di comportamenti, di idee e di principi che si risolvono nell’assegnare gli individui a determinate categorie, quindi nella instaurazione di “confini” e, al tempo stesso, di appartenenze. La distinzione regna infatti nella cultura tanto quanto l’identificazione e la mimesi (Affergan, Borutti, Calame, Fabietti, Kilani, Remotti 2003).

E’ ormai assodato come alla base delle distinzioni più generali che le società sono capaci di instaurare (per esempio quella tra “noi” e “loro”) vi sia una continua opera di “costruzione di confini”. Pensiamo alle caste, alle etnie, alle metà tipiche delle società organizzate sul modello dualista ma anche, per venire a cose a noi forse più familiari, alle nazioni, alle classi, ai partiti, alle fazioni, alle contrade. Queste distinzioni sono sempre ottenute mediante l’enunciazione di discorsi che hanno lo scopo di produrre delle specificità, ambiti di specificità a cui ricondurre la propria identità definita in contrapposizione ad altre [2 ].

Se l’umanità appare impegnata a “costruire confini” (magari attraversabili), il compito dell’antropologia consiste allora nello studio di come ciò avvenga. L’antropologia è, da questo punto di vista, lo studio del modo in cui gli esseri umani producono le differenze individuali e collettive, di come cioè producono “confini”.

Un punto importante, e ineludibile, nella discussione antropologica sui confini, riguarda la natura stessa della loro rappresentazione. Di chi sono i confini di cui parla l’antropologia? Sono una elaborazione di coloro di cui l’antropologia parla, o sono piuttosto una costruzione degli antropologi? Sono cioè rappresentazioni che ricalcano quelle di soggetti sociali privati della parola, o sono piuttosto delle modalità oggettive di descrivere ciò che avviene nella realtà? Queste sono domande importanti, di cui si deve tenere conto se ci si vuole interrogare sullo statuto delle rappresentazioni del confine, e naturalmente sono importanti specialmente per l’antropologia che, come tutti sanno, si configura come un sapere con la pretesa di “attraversare i confini” che separano universi di significato spesso incommensurabili ma non per questo intraducibili (Overing 1987).

Nelle pagine che seguono cercheremo quindi di esporre in maniera sintetica alcuni aspetti dell’uso della nozione “confine” in antropologia provando, per quanto possibile in uno spazio ridotto, a evocare alcuni dei problemi epistemologici connessi con tale uso.

Il “paradigma etnico” e la problematica del confine

Negli studi antropologici la discussione sui confini ricevette un impulso decisivo con la pubblicazione, nel 1969, di un libro a cura dall’antropologo norvegese Fredrik Barth, Ethnic Groups and Boundaries. In questo libro il tema dei confini veniva svolto in relazione a quello dell’identità etnica. Da allora, e in seguito per molti anni, gli interessi degli antropologi per la problematica del confine sarebbero stati connessi al tema dell’etnicità. La notevolissima influenza di questo libro sugli studi antropologici è da ricondursi alla introduzione di Barth, nella quale vennero gettate le basi del cosiddetto “paradigma etnico” (Barth 1969a). Barth, che aveva condotto ricerche etnografiche in regioni dell’Asia centro-meridionale caratterizzate dalla presenza di numerosi gruppi etnici in relazione di cooperazione e di conflitto reciproci, aveva notato come i “confini” tra gruppi venissero regolarmente “attraversati”, e come inoltre essi persistessero nonostante i frequenti cambiamenti identitari che si determinavano in tali occasioni (Barth 1969b). Barth mise così un discussione la concezione classica del gruppo etnico. Sino ad allora questa espressione era servita prevalentemente a indicare una popolazione capace di autoperpetuarsi sul piano biologico; di condividere valori culturali resi manifesti in forme esplicite quali istituzioni, comportamenti, credenze, ecc; in grado di dare luogo a un campo di interazione e di comunicazione (organizzazione sociale e lingua); e infine, di indicare una popolazione composta da soggetti che si identificano, e sono identificati da un osservatore esterno, come un gruppo distinguibile da altri dello stesso ordine. Questa rappresentazione del gruppo etnico si fondava su una visione sostanzialista dell’identità, in quanto faceva propria l’idea di una coincidenza tra “razza”, cultura e lingua, e aderiva al pregiudizio che le differenze culturali fossero conseguenza dell’isolamento sociale e geografico. La concezione classica dei gruppi etnici assumeva di fatto che le rappresentazioni, tanto interna che esterna di questi ultimi, e quindi dei loro confini, fossero coincidenti.

Osservando come in contesti caratterizzati dalla compresenza di gruppi etnici diversi fosse frequente il passaggio di individui da un gruppo ad un altro, con l’assunzione da parte dei soggetti di identità di volta in volta differenti, Barth si accostò al problema nella prospettiva dell’attore sociale. Tale prospettiva consentiva, diversamente da quella sostanzialista che considerava il gruppo etnico come definibile in base a caratteristiche “oggettive” riconducibili a fattori “razziali”, linguistici e culturali, di rappresentare i confini non come qualcosa di oggettivamente e definititivamente dato, ma piuttosto di strategicamente prodotto attraverso pratiche sociali e simboliche [3 ]. In questa nuova prospettiva i gruppi etnici vennero pertanto considerati in primo luogo come categorie di ascrizione e identificazione da parte degli stessi attori che manipolano contestualmente pratiche e simboli allo scopo di definire sé stessi e stabilire così un confine nei confronti di altri. Cadeva in tal modo l’idea che i gruppi etnici potessero essere definiti sulla base della descrizione dei tratti oggettivi costitutivi di una determinata etnia. Di conseguenza anche la prospettiva che mirava a ricostruire la storia delle etnie intese come entità autoperpetuantesi nel tempo poteva essere abbandonata a vantaggio dello studio dei confini etnici e dei meccanismi che ne assicuravano la riproduzione.

Nella definizione del gruppo etnico e nella sua conservazione, sono i confini ad agire nel processo di attribuzione dell’identità, e non il supposto contenuto culturale dell’etnia. Infatti, per i componenti di un gruppo etnico affermare la propria identità equivale a definire un principio di distinzione nei confronti di “altri”; a costruire cioè un confine che è quasi sempre fondato sulla scelta contestuale di un numero limitato di tratti culturali. L’esistenza dei gruppi etnici e il loro perdurare nel tempo è dunque un effetto della presenza di confini, a prescindere dai cambiamenti che possono interessare gli “indicatori” diacritici sui quali essi si fondano, e che possono cambiare a seconda delle circostanze e da un’ epoca all’altra.

Nella concezione sostanziale del gruppo etnico la possibilità di problematizzare alcuni fenomeni era, di fatto, preclusa. Questioni quali : come è possibile un cambiamento di identità? Perché i confini continuano ad esistere anche laddove si hanno cambiamenti identitari? Come mai l’identità di un gruppo è declinata in maniera diversa a seconda dei differenti gruppi con cui tale gruppo entra in relazione? Barth dimostrò che il confine persiste nonostante il passaggio di individui da un gruppo ad un altro, nonostante cioè gli individui cambino la loro identità. Le distinzioni etniche, pertanto, non potevano essere considerate il prodotto dell’isolamento, così come frutto dell’isolamento non potevano essere considerate le differenze culturali che di solito vengono utilizzate per costruire il confine. Sebbene infatti le categorie etniche chiamino in causa delle differenze culturali (oltre a fattori quali l’origine, la discendenza, il territorio, la lingua ecc.), le caratteristiche prese in considerazione da coloro che si auto-definiscono “etnicamente” non sono mai “tutte” le differenze “oggettive” che li contraddistinguono rispetto ad altri, ma solo quelle soggettivamente e contestualmente ritenute “utili” per stabilire un confine.

L’antropologia aveva registrato già da tempo la discrepanza tra l’idea di appartenenza e la presenza dei fattori deputati alla fondazione di tale idea. Nel 1947 l’africanista Sigfried Nadel aveva per esempio notato come a fronte di asserzioni relative a una comune appartenenza (“tribale”), non fosse possibile riscontrare una oggettiva comunanza di tratti culturali e linguistici.

“I dati dell’antropologia – scrive Nadel – non sono di supporto a queste affermazioni…. Incontreremo gruppi che, sebbene siano vicini stretti e possiedano quasi la stessa lingua e la stessa cultura, non si considerano come facenti parte della stessa tribù; e incontreremo anche tribù che rivendicano questa unità indipendentemente dalla loro differenziazione culturale interna…. L’idea [dell’appartenenza] tribale perciò, è radicata in una teoria della diversità culturale, la quale ignora o scarta le variazioni esistenti come se non esistessero, e ignora e sottovaluta le uniformità al di là dei confini che essa stessa si è data. La tribù esiste non in virtù di una qualche unità o somiglianza oggettiva, ma in virtù di un’unità ideologica, e di una somiglianza accettata come un dogma” (Nadel 1947: 13).

Bisogna dunque mettere l’accento sul confine, non sul “materiale culturale” che esso “circoscrive”. I contenuti culturali non determinano il confine ma possono servire, in alcune circostanze, a crearlo. Infatti i “contenuti”, più che a determinare la differenza, servono a rappresentare l’identità in maniera contrastava e relazionale . Tale rappresentazione è d’altra parte mutevole. Un gruppo può infatti inviare segnali di una propria etnicità ad un secondo gruppo che sono possono essere alquanto diversi da quelli che utilizza per comunicare la propria “etnicità” ad un terzo gruppo.

Barth dimostrò infatti che il gruppo etnico pensato normalmente come definito da determinati contenuti culturali è, in quanto frutto di una rappresentazione, dinamico, mutevole e transeunte così come lo sono le strategie attraverso le quelli esso si costituisce contestualmente in relazione ad altri.

Problemi epistemologici legati all’utilizzazione della nozione di “confine”

Il “paradigma etnico”, che ha indubbiamente contribuito a ampliare, e a rendere più complessa e problematica la nostra concezione dei fenomeni e dei processi identitari che sono alla base della costituzione dei gruppi etnici, non è ovviamente esente da problemi e da paradossi. Alcuni di essi possono essere così sintetizzati. Se l’etnicità è qualcosa di formulabile in maniera contestuale in quanto frutto di strategie contingenti di definizione rispetto a soggetti “altri”, strategie che possono mutare a seconda delle circostanze e delle epoche, ciò vuole forse dire che l’identità non è permanente ma che è solo temporanea? Se in base a strategie contingenti e contestuali un gruppo può presentarsi come “etnicamente diverso” rispetto a più gruppi contemporaneamente, è legittimo ritenere che siamo in presenza sempre del medesimo gruppo? Se il gruppo può “cambiare identità” è possibile parlare di una qualche identità autentica?

Questioni simili sono all’origine di un lavoro di progressivo affinamento della ricerca etnografica attraverso il quale si è cercato di rendere sempre più sfumata e perspicua l’analisi dei processi identitari, dell’appartenenza etnica e della nozione di confine. In questo senso le nozioni di confine, identità, autenticità, appartenenza ecc. sono state estese alle dimensioni della soggettività, tanto collettiva quanto individuale; alle differenze di genere, nonché alle richieste di riconoscimento della propria autenticità, identità e autodeterminazione che sempre più occupano gli spazi di nuove sfere pubbliche create dalla globalizzazione e dalla planetarizzazione delle comunicazioni. Lo scopo dello studio dei confini identitari è quello di prestare sempre maggiore attenzione – nello spirito del paradigma etnico inaugurato da Barth – a quanto i soggetti affermano circa la loro condizione, e a come essi entrano in relazione con altri soggetti, tanto individuali quanto collettivi.

Diventano allora plausibili le domande che ci siamo posti all’inizio: di chi sono i confini di cui parlano gli antropologi? Sono delle elaborazioni locali, o sono invece delle costruzioni antropologiche? O sono piuttosto il risultato di una fusione di due orizzonti, quello locale e quello antropologico? Queste domande investono la natura delle rappresentazioni che noi produciamo per descrivere certi fenomeni, e sollevano la questione della distanza che sempre esiste, e che non è sempre colmabile, tra la percezione che un soggetto ha di sé stesso e la percezione che altri hanno di lui. Con l’inevitabile conseguenza che ciò che può essere scontato per un soggetto (per esempio un confine etnico o culturale) può non esserlo per un altro…. Qui non è tanto in gioco il fatto di dover scegliere tra una conoscenza oggettiva del mondo e una falsa coscienza di esso, quanto piuttosto la legittimità, da parte di qualcuno, di prendere la parola al posto di un altro (Certeau 2004). Questo è un problema nei cui confronti l’antropologia, negli ultimi venti anni, si è dimostrata particolarmente sensibile, e che è parte di un generale ripensamento delle categorie e delle procedure d’indagine della disciplina che fa capo a quella che è stata definita la “crisi della rappresentazione etnografica” (Marcus e Fischer 1998).

La convinzione che non sia più così facile come un tempo prendere la parola al posto di altri, soprattutto oggi che, come è stato detto, “lo scarto tra l’accattivarsi gli altri là dove stanno e vivono, e il descriverli là dove non ci sono […] ha acquistato all’improvviso un’evidenza estrema” (Geertz 1990 p. 140), non riguarda soltanto la deontologia professionale o lo statuto etico della disciplina, ma anche, e in prima istanza, lo statuto epistemologico delle sue categorie. La complessità delle vite altrui non può essere ricondotta a una qualche tipologia o a un qualche modello nella presunzione che il possesso di un metodo o di un corpus di conoscenze “scientifiche” possa di per sé legittimare operazioni di questo genere. Né possiamo pretendere di afferrare la complessità di esperienze sociali e culturali “altre” imponendo ad esse categorie e modelli euro-centrici, o comunque non sufficientemente riconsiderati nel contesto della loro applicazione.

Le questioni connesse con l’utilizzazione della nozione di confine a cui si è accennato dovrebbero ricordare agli antropologi, e auspicabilmente a tutti coloro che praticano le scienze umane e sociali, che la problematica del confine rientra in quella, più generale, del modo in cui usiamo i nostri concetti. Ciascuno dei saperi che vengono solitamente annoverati tra le scienze umane e sociali ha certamente, un proprio ambito metodologico ed epistemologico di pertinenza. Tuttavia è sempre più evidente che per tutti loro vale la messa in guardia contro un uso “disinvolto” dei concetti che non tenga conto della capacità di produrne anche da parte di coloro che costituiscono, per consuetudine, l’oggetto dei nostri studi. 

NOTE

1- “L’antropologia…… non ritiene che la verità sia qualcosa di raggiungibile al di fuori delle forme di esistenza storica e sociale in cui vivono gli esseri umani, cioè al di fuori della loro ‘cultura’. Ciò non significa sprofondare l’antropologia nel relativismo, ma piuttosto situarla a mezza via tra Montaigne e Descartes, perché se fa proprio il dubbio di quest’ultimo contro il pregiudizio dell’abitudine, essa respinge al contempo la pretesa che questo dubbio possa fondare una razionalità priva di legami con il contesto culturale che l’ha prodotta. Per questo motivo l’antropologia accetta sì una ‘critica dei costumi’, ma allo scopo di negare che i costumi degli ‘altri’ siano in qualche modo addomesticabili da un atteggiamento intellettuale prodotto anch’esso di un ‘costume’: la razionalità astratta della tradizione occidentale. L’antropologia è in effetti una frontiera perché si situa alla frontiera di una tradizione di sapere che ha sempre considerato se stessa in grado di ricondurre il mondo a categorie ad essa proprie. In pratica, alla frontiera di una cultura che ha sovente piegato al proprio logos il senso degli altri. L’antropologia, che è indubbiamente espressione di questa tradizione di pensiero (variamente definito ‘totalitario’, ‘colonialista’, ‘imperialista’, ‘sessista’ ecc.) è però anche figlia del dubbio che, sulla scorta di Descartes, tale tradizione e tale cultura hanno saputo esprimere nei confronti di loro stesse (Fabietti 1999: 5).

2- Lo studio di François Hartog Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nella Grecia antica, mostra molto bene come ciò sia avvenuto nel caso del mondo ellenico, a come cioè il discorso che quest’ultimo ha posto alla base della propria identità sia stato co-determinato dal continuo confronto con altri mondi e dal continuo sforzo di stabilire un confine tra sé e questi ultimi (Hartog 2002).

3- Ricondurre alla prospettiva dell’attore sociale la problematica del confine, della sua rappresentazione, e quindi dell’identità che tale confine definisce in contrapposizione ad altre identità mediante l’uso strategico di pratiche e rappresentazioni, non esclude ma anzi comprende, i casi di quelle identità che sono definite e imposte da un agente esterno. I popoli del Vicino Oriente antico possono costituire un esempio abbastanza noto a tutti. Nei manuali scolastici di storia antica i loro nomi appaiono e scompaiono senza che si sappia qualcosa della loro origine o della loro fine. Il fatto è che questi popoli “nascevano” e altri “morivano” sulla base dei rapporti di forza esistenti all’epoca in cui i loro nomi venivano fissati negli archivi degli stati della regione, tracce giunte sino a noi grazie ai ritrovamenti archeologici. Quasi sempre i loro nomi erano il risultato del punto di vista di coloro che erano in grado di nominarli. Nomi di popoli, “tribù” ed “etnie” contemporanee, introiettate dagli stessi gruppi nominati da un agente esterno, sono il risultato dello stesso processo: welsh (gallesi), slavi, beduini, ebrei, barbara ecc. (Fabietti 19982)

Riferimenti bibliografici

Affergan, F., Borutti, S., Calame, C., Fabietti, U., Kilani, M., Remotti, F. 2003 Figures de l’humain. Le représentations de l’anthropologie . Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris.

Barth, F. (editor) 1969a Ethnic Groups and Boundaries . Oslo University Press, Oslo.

Barth, F. 1969b, “Pathan identity and its maintenance” , in Barth 1969a.

Certeau, M. de 2004 La scrittura dell’Altro . A cura di S. Borutti e U. Fabietti. Cortina, Milano.

Fabietti, U. 19982 L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco . Carocci, Roma (ed. or. 1995).

Fabietti, U. 1999 Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione . Laterza, Roma.

Geertz, C. 1990 Opere e vite. L’antropologo come autore . Il Mulino, Bologna (1988).

Hartog, F. 2002 Memoria di Ulisse. Racconti sulla frontiera nella Grecia antica . Einaudi, Torino (1996).

Marcus, G. e Fisher, M. 1998 Antropologia come critica culturale . Meltemi, Roma (1986).

Nadel, S. F. 1947 The Nuba . Oxford University Press, Oxford.

Overing, J. 1987 “Translation as a creative process: the power of the name”, in Holy, L. (editor), Comparative Anthropology . Blackwell, Oxford.

Remotti, F. 2000, Prima lezione di antropologia . Laterza, Roma.