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Un’occasione da cogliere

di Tommaso Detti

All’imminente riforma degli ordinamenti didattici dell’università molti docenti stanno opponendo una sorta di resistenza passiva e non sono pochi coloro che non nascondono la loro aperta contrarietà. Le motivazioni che sorreggono tali atteggiamenti sono varie, ma forse – trascurando quelle dettate da mero conservatorismo, peraltro in genere negate dagli interessati – possono essere rubricate sotto un’unica voce: la preoccupazione per uno scadimento del livello qualitativo dell’università italiana.
Che rischi del genere esistano non mi sentirei di negarlo. Il livello medio della nostra università non mi sembra tuttavia così eccelso da dover essere salvaguardato, e tanto meno lo è la sua efficienza. Al contrario. Prima di gridare alla licealizzazione occorrerebbe innanzi tutto non dimenticare che il 70% dei nostri studenti abbandona gli studi. Ciò accade per molti motivi che sarebbe troppo lungo elencare, ma tra questi un ruolo cruciale lo ha un modello di didattica funzionale soltanto a un’infima minoranza degli studenti (gli “eletti” destinati agli studi, anche se solo in teoria), in nome del quale le esigenze e le prospettive della grande maggioranza sono sempre state completamente trascurate. Più in generale a me sembra incontrovertibile che l’università italiana necessiti da decenni di interventi riformatori e che così non fosse pensabile di poter andare ancora avanti decentemente. Per quanto si possano nutrire fondate riserve su questo o quello dei contenuti della riforma, perciò a mio parere essa può costituire comunque un’importante occasione di rinnovamento per le nostre università.
Ciò premesso, del cosiddetto “tre più due” si discute ormai da molto tempo e ciò mi esime dalla necessità di richiamarne gli aspetti più generali (lo fa del resto Sinigaglia nella sua intervista). Mi limiterò quindi a toccare pochi punti che considero meno scontati e che riguardano più che altro l’applicazione dei nuovi ordinamenti.
Non è affatto detto che la riforma abbia sempre e dappertutto effetti positivi. Perché ciò accada, bisogna che i docenti se ne facciano carico sul serio, anziché tentare, come molte volte si fa, di “limitare i danni”. In altre parole: niente sarebbe più sbagliato che considerare i nuovi ordinamenti come un contenitore nel quale sforzarsi di reinserire gattopardescamente l’esistente. La laurea triennale non può essere vista come la prima parte di un percorso che sarà compiuto solo al termine dei cinque anni perché è prevedibile che la maggior parte degli studenti (e cioè, grosso modo, proprio quel 70% che oggi abbandona gli studi) non si iscriva ai corsi di laurea specialistica. Pur dovendosi prefigurare curricula quinquennali unitari e omogenei, la laurea dovrà essere considerata come un traguardo a sé stante. Ciò non significa che sia agevole tenere insieme le due fondamentali ma contraddittorie indicazioni del legislatore, il quale insiste sul carattere professionalizzante della laurea nel momento stesso in cui le conferisce una impostazione – come si dice – accentuatamente “generalista”. Visto che i decreti configurano i nuovi corsi di studio come piramidi, prevedendo livelli crescenti di specializzazione, ritengo anzi che quanto meno nelle discipline umanistiche sarà assai difficile introdurre nel triennio sostanziosi elementi di professionalizzazione. Resta tuttavia il fatto che i piani di studio delle lauree triennali dovranno essere studiati come percorsi formativi compiuti.
Il compito al quale le università sono chiamate è insomma tutt’altro che banale. Come se non bastasse, il ministero ha pensato bene di complicare ancora le cose, accentuando un aspetto tutto italico della legge, consistente nella pretesa di predeterminare in modo centralistico una riforma che si proclama autonomista. È un punto al quale è bene prestare molta attenzione perché i nuovi ordinamenti stanno giungendo al traguardo abbastanza diversi da come apparivano all’inizio. Non parlo della configurazione più o meno condivisibile di questa o quella classe di laurea; penso soprattutto al meccanismo innescato dalla bozza di decreto per le lauree specialistiche.
Vincolando non una quota dei 120 crediti del biennio (come sembrava che venisse fatto) ma 198 crediti su 300, il ministero ha introdotto restrizioni aggiuntive anche nel triennio. Ciò ridurrà pesantemente i margini di autonomia delle singole sedi anche perché non sempre i vincoli del triennio e quelli del biennio coincidono. Il quadro che ne esce varia da classe a classe, ma in sostanza i nuovi ordinamenti finiscono per somigliare in modo preoccupante alle tabelle del passato. Si aggiunga che, poiché per attivare una laurea specialistica le università devono avere acceso almeno una laurea i cui crediti siano interamente riconoscibili per accedere al secondo livello, le diverse sedi si trovano ora a dover prefigurare corsi di laurea che non precludano i successivi corsi specialistici prima ancora di sapere con certezza come questi ultimi si configureranno.
Con tutto ciò i nuovi ordinamenti offrono alle diverse sedi l’opportunità di una riflessione seria su cosa si deve insegnare, su come lo si deve insegnare e perché. Non mi risulta che negli ultimi cinquant’anni qualcuno ci abbia mai provato. Già una riflessione del genere non sarebbe cosa da poco: là dove ci si cimenterà con questi problemi, esiste la concreta possibilità di innovare positivamente e concretamente l’insegnamento universitario.
Perché questo accada, tuttavia, è indispensabile che si facciano con la massima chiarezza i conti con uno dei più pesanti tabù della nostra tradizione accademica: quello della libertà di insegnamento. L’abolizione della titolarità delle discipline costituisce già un’acquisizione molto importante perché rende possibile che i compiti didattici vengano assegnati ai singoli docenti (con il loro consenso, s’intende) dalle facoltà e dai corsi di laurea. Adesso è necessario, e sol che lo si voglia è possibile, andare oltre. Ad essere in questione non è la libertà di insegnamento: in questione è la facoltà sinora lasciata ai singoli docenti di decidere da soli che cosa insegnare e come farlo.
Cerco di spiegarmi meglio con qualche esempio riguardante la nostra disciplina: nel momento in cui i curricula degli studenti saranno finalmente scanditi anno per anno, dovremo ben discutere sul tipo di insegnamento da impartire al primo anno di corso e a quelli successivi. Sarà il caso di individuare delle forme di propedeuticità? I corsi di primo livello dovranno avere un taglio generale o no? Come è più opportuno prefigurare il syllabus di un esame del genere? Quale spazio deve essere riservato ai problemi epistemologici e metodologici della disciplina, quale alle fonti e alla storiografia? E come insegnare la cosiddetta storia generale: con andamento cronologico-manualistico o per grandi problemi? E ancora: quali conoscenze di storia contemporanea servono a uno studente di filosofia? Saranno uguali o no a quelle richieste a uno studente del settore dei beni culturali, di lingue o di scienze della comunicazione?
Se saremo capaci di metterci intorno a un tavolo e discutere di tutto ciò (e di molto altro ancora), il fatto stesso di farlo costituirà un’innovazione di grande peso. A me sembra indispensabile che si colga questa occasione per smettere una volta per sempre di concepire i nostri piani di studio come mere sommatorie di esami diversi. Dovremmo invece definire innanzi tutto gli obiettivi formativi finali e disegnare poi i modelli e i percorsi didattici più adeguati per raggiungerli. Che in nome della libertà di insegnamento i singoli docenti possano continuare a decidere i contenuti e il taglio dei loro corsi secondo le loro personali propensioni a me sembra improponibile, tanto più che con l’abolizione della nominatività delle discipline gli insegnamenti non sono più appannaggio esclusivo dei rispettivi docenti.
Non a caso i settori scientifico-disciplinari che entreranno in vigore assieme al “tre più due” non comprendono i tradizionali elenchi dei relativi insegnamenti, che saranno invece autonomamente definiti – anche nel nome – dai singoli atenei, nell’ambito della sintetica descrizione dei loro contenuti fissata dalla legge. Questi, ad esempio, i contenuti del settore M-Sto/04 Storia contemporanea indicati nel decreto 23.12.1999: «Il settore comprende le competenze relative agli ultimi due secoli a partire dagli eventi politici tardo settecenteschi che propongono i temi universali dell’autodeterminazione e della cittadinanza (rivoluzione americana e rivoluzione francese). Si caratterizza per l’attenzione ai fenomeni di interdipendenza mondiale, massificazione e accelerazione dei processi socio-economici. In quanto indagine volta alla chiarificazione del nostro tempo, sviluppa l’intreccio tra storia e memoria, storia di genere, fenomeni politico-istituzionali, religiosi, socio-culturali, militari. Comprende inoltre studi relativi alla metodologia, alla storiografia e alla didattica del periodo considerato».
Ci sono del resto anche altre ragioni che sottolineano la necessità di un’accurata programmazione dei percorsi didattici proposti agli studenti e del “profilo” dei singoli insegnamenti. Sinora le diverse materie hanno avuto il medesimo “peso”, corrispondente a un numero minimo di ore di lezione uguale per tutte; in futuro, invece, il numero dei crediti attribuito a ciascuna di esse potrà essere diverso. Se la titolarità delle discipline non sarà effettivamente superata, verrà così a determinarsi una sorta di gerarchia degli insegnamenti (e dei rispettivi docenti) con il prevedibile risultato di una guerra di tutti contro tutti per la conquista di un “rango” tanto più elevato quanto più sarà alto il numero dei crediti.
Non è inoltre difficile immaginare quali altri conflitti tra docenti potrebbero accendersi per ottenere di essere destinati a insegnare nei corsi delle lauree specialistiche e dei dottorati di ricerca, anziché in quelli del primo livello. Se ciò accadesse, sarebbero verosimilmente i docenti più anziani e autorevoli a spuntarla e si tratterebbe di una vera e propria aberrazione. Un giovane studioso si presume infatti particolarmente idoneo a svolgere un insegnamento specialistico nel campo delle sue ricerche, mentre i suoi colleghi più anziani possiedono (o dovrebbero possedere) la maggiore ampiezza di orizzonti auspicabile per insegnamenti a carattere generale, per il semplice motivo che studiano e leggono da molto più tempo. Con ciò non intendo certo proporre che i professori ordinari vengano “condannati” a insegnare nel triennio; mi preme mettere in guardia dal pericolo che accada il contrario.
In realtà il solo modo per evitare questi ed altri inconvenienti consiste in una modularizzazione degli insegnamenti, che consenta a tutti i docenti di svolgere la propria attività didattica ai diversi livelli, dalla laurea sino al dottorato. Articolare i corsi universitari in moduli affidati a più di un docente implica però il rischio che si finisca per proporre agli studenti un puro e semplice assemblaggio di moduli tra loro incoerenti, e tale rischio può essere evitato solo a patto che i docenti del settore discutano e definiscano preventivamente il taglio e i contenuti del corso loro affidato.