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Cento anni di riso. Storia della risicoltura nel maceratese

Paolo Brasca
Macerata, Eum, 108 pp., € 9,50

Anno di pubblicazione: 2013

Seguendo il percorso di un’interessante documentazione locale – una vivace corrispondenza tra consigli comunali, prefetti, periti di parte e proprietari terrieri – l’a. ricostruisce un frammento in realtà ventennale dei processi, scarsamente lineari, che caratterizzano la modernizzazione delle nostre campagne postunitarie. L’inquadramento storiografico cui fa riferimento il lavoro è soprattutto in quella parte di letteratura che, di quei processi, analizza gli impatti sociali nel ridefinirsi delle strutture aziendali e dei rapporti di lavoro, nella devastazione di ambienti umani consolidati e dei loro assetti igienico-sanitari.
Al centro della narrazione sta il tentativo di alcuni grandi proprietari di impiantare la risicoltura nel territorio maceratese, complessivamente segnato da quella relativa arretratezza che sarebbe stata di lì a poco fotografata dall’inchiesta agraria Jacini. Sullo sfondo c’è il modello delle trasformazioni che caratterizzano il non distante paesaggio padano, dove la risicoltura è fatta di dinamismo imprenditoriale e di feroce sfruttamento della manodopera, di complessi interventi tecnico-ambientali e della forte incidenza mercantile di un prodotto il cui consumo interno era in generale, almeno fino alla grande depressione, abbastanza insignificante. Piuttosto diverso è il quadro del territorio qui in questione dove l’incerta situazione idrologica, la debolezza finanziaria, la scarsa comunicazione fra le aree condizionavano pesantemente le pulsioni innovatrici e la loro disciplina. Purtroppo poco ci viene detto dei gruppi dirigenti. Nitido è però il profilo di un ceto proprietario dalle dubbie capacità imprenditoriali, tuttavia attento a rivendicare, in nome della modernità del giovane Stato unitario, «la libertà di disporre dei propri beni secondo i propri interessi e la possibilità di intraprendere liberamente delle attività» (p. 59). In tutto questo, come nella vicina Romagna, le potenzialità modernizzatrici della risicoltura si traducono piuttosto nelle forme della coltivazione d’azzardo legata ai processi di bonifica per colmata; o in quelle di una coltura più «regolare», ma comunque segnata dalla colpevole elusione dei necessari interventi tecnico-ambientali e dalla costante forzatura delle normative che caratterizza i primi confusi anni di esistenza dello Stato unitario. Già l’inchiesta Jacini è in grado di certificare, nel 1883, l’avvenuta estinzione della risicoltura maceratese, all’interno di un settore primario che preferisce infine rimanere saldamente ancorato alle immobilità mezzadrili, comunque intessute di miseria sociale e di squilibri produttivi. Nella sostanza un’occasione mancata, valuta l’a., di modernizzazione tecnica e di emancipazione sociale, secondo il modello padano e pure con tutto il suo carico di pesanti snaturamenti, sfruttamenti e violente contrapposizioni. Anche nelle terre di Leopardi, «un progresso reale delle condizioni dell’agricoltura e delle condizioni dei contadini avverrà solamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale» (p. 100), in campagne stravolte dallo spopolamento e dalla crescente cementificazione del paesaggio.

Roberto Parisini