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Combattenti, sbandati, prigionieri. Esperienze e memorie di reduci della seconda guerra mondiale

Gabriella Gribaudi
Roma, Donzelli, XVIII-238 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2016

L’ultimo lavoro di Gabriella Gribaudi torna sulla memoria del secondo conflitto
mondiale. Rivendicando «la funzione con cui la storia orale è nata […] e cioè quella di
dare voce a persone che difficilmente potrebbero accedere allo spazio pubblico» (p. XV),
la storica ci restituisce il senso attribuito alla guerra da ex soldati italiani, per lo più di
estrazione popolare e con un non elevato livello di studi, analizzando un vasto corpus di
testimonianze orali, raccolte nella seconda metà degli anni ’90 da studenti dell’Università
di Napoli.
L’appartenenza al contesto campano è un dato cruciale per comprendere queste memorie
che riguardano tutti i fronti di guerra e situazioni di prigionia anche molto differenti
tra di loro. Spiega, infatti, il tono ironico che accompagna il racconto di guerra, nel
quale l’arguzia del protagonista finisce con l’operare il rovesciamento, tipico del mondo
delle fiabe, dei deboli che mettono in scacco i potenti. In questo quadro l’8 settembre
appare non solo come il momento del crollo delle istituzioni statali ma anche come una
possibilità per il singolo di riappropriazione del proprio destino.
Torna dunque il tema della scelta, ma in senso molto diverso da quello di Claudio
Pavone. Il rifiuto della guerra appare qui generalizzato (tranne che per i militari di carriera)
e il momento bellico è presentato come qualcosa da sempre estraneo ai protagonisti,
tanto da far scomparire ogni riferimento alla violenza agita in precedenza. Lo stesso fascismo
è ridotto a un regime lontano, seguito solo da pochi esaltati a cui sono attribuite
le violenze più gravi. È all’interno di questo radicale rifiuto esistenziale del conflitto che
i testimoni collocano le loro azioni, come la decisione di arrendersi ai tedeschi venendo
internati in Germania.
Prigionieri degli Alleati, oppure in mano germanica, o persino partigiani nei Balcani
accanto ai ribelli sino a poco tempo prima ricercati, i soldati italiani paiono realisticamente
prendere atto del tracollo della classe dirigente nazionale, ricercando solidarietà
parentali o comunitarie e costruendo una loro epopea a partire dalla capacità della gente
comune di salvarsi in condizione difficili. Si sottrae a questa rappresentazione l’esperienza
della prigionia in Unione Sovietica dove invece, sia per la violenza del sistema politico
stalinista che per la povertà complessiva della società locale, la morte domina i racconti
cancellando ogni spazio di ironia o gioco di astuzia.
Il quadro complessivo è quello della fine, almeno nei soldati italiani, del mito
dell’uomo guerriero. Lo conferma la centralità nei racconti delle donne «nemiche», in
ogni contesto elevate al ruolo di «salvatrici», sia perché madri ma anche perché pronte
a condividere passioni e umanità a dispetto dello scontro armato. L’immagine finale è
quella dunque di un maschio spogliato della sua dimensione militare e tornato invece
uomo comune e, proprio perché tale, «capace di muoversi negli interstizi di un sistema di
controllo dispotico, di disobbedire, di fuggire» (p. 223).

Tommaso Baris