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Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana

Vittorio Foa, Aldo Natoli
intro¬duzione di Adolfo Pepe, nota editoriale di Anna Foa e Claudio Natoli, Roma, Editori Riuniti university press, 303 pp., € 23,00

Anno di pubblicazione: 2014

Foa e Natoli, nel 1993-1994, affrontarono la loro storia politico-sindacale tra gli anni ’30 e i ’60. L’intenso dialogo inedito è proposto con un apparato di note e un’appen¬dice su quadri e dirigenti del movimento operaio. Foa sembra defilato rispetto a Natoli, che racconta di sé dall’infanzia al «Manifesto», passando per l’antifascismo e il Pci. Ma Foa, indirizzando la discussione, non pone solo domande. Propone interpretazioni sulla base di analisi ragionate, incentrate su approfondimenti che avrebbe continuato fino alla fine. Il libro ci dice quanto sia importante la memoria che, vagliata attraverso i documen¬ti, restituisce l’atmosfera del passato.
È il caso dell’esperienza di Natoli al Policlinico di Roma prima della Liberazione quando, appassionato medico, seppe che i tubercolotici non venivano curati, scoperta che lo allontanò dalla professione. O delle caratteristiche di Togliatti: i rapporti con avversari e compagni; la svolta di Salerno, il partito nuovo, la democrazia progressiva; l’attentato del ’48, la «doppiezza» e le riforme di struttura. Stimolanti i ritratti che emergono: Alicata e Bruno Zevi, Lucio Lombardo Radice, Sanguinetti e Bufalini, Rossanda e Luigi Pintor, Eugenio Reale e gli Amendola.
Il ’56 «è un momento in cui tutta la speranza, il millenarismo di massa, viene meno» (p. 112). Per Natoli crolla il mito di Stalin ed è messo in crisi il modello sovietico: «la figurazione mitica della rivoluzione inevitabile […] lo era anche nelle sue manifestazioni tattiche, la base sulla quale si finiva per giustificare il tatticismo di Togliatti», un’illusione che «nella realtà di ogni giorno si concretava in un lavoro ostinato, continuo, per strappa¬re ogni posizione minima di maggiore possibilità di azione, per intervenire in lotte le quali si consumavano […] per un miglioramento minimo delle condizioni di vita» (p. 166). E a Foa che gli chiede se prima «c’era una rappresentazione più precisa di che tipo di società e di organizzazione politica si desiderava», ammettendo di esserselo chiesto molte volte, Natoli risponde di no. Erano i primi anni ’50, in cui pochi erano coscienti: il modello diffuso nelle sezioni era quello dei libri di Robotti che, senza incrinare la fede nell’Urss, contribuivano ad alimentarne il mito, che resistette a lungo pure nel Psi. Se, dice Foa, lo stalinismo comunista «si può condannare […] però tu hai una spiegazione nel quadro di una continuità storica [.] lo stalinismo socialista perché c’è stato?» (p. 169).
La ricerca di un’alternativa al capitalismo e alla socialdemocrazia, socialista e liberta¬ria, si pose per Natoli anche dopo il ’68 e la rottura col Pci, cui seguirono le illusioni sulla rivoluzione culturale cinese. Alla fine del dialogo, si coglie la drammaticità e la ricchezza del ’900: un secolo di trasformazioni traumatiche, di sogni e illusioni, di guerre e crescita, di impegno concreto e idealità. La sensazione è che nel nuovo millennio, con il peso delle ideologie spesso foriere di tragedie, sia svanita anche la capacità da parte della politica di progettare il futuro.

Andrea Ricciardi