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Elia Ponti – La recezione del diritto privato occidentale in Cina fra il 1840 ed il 1949 – 2006

Elia Ponti
Milano, Unicopli, 222 pp., euro 14,00

Anno di pubblicazione: 2006

Si vuole che per secoli in Cina le relazioni familiari, l’uso e il possesso della terra, lo scambio di prodotti, siano stati regolati dalle consuetudini nell’ambito dei valori confuciani. Che non vi fossero né il principio di legalità, né magistrature, giacché il codice della dinastia Qing, che è rimasto in vigore fino alle riforme del secolo XX, aveva carattere penale-pubblico, non civilistico. Anche per questo nell’esercitare i loro commerci ed estrarre ricchezza gli europei scelsero di creare aree di extraterritorialità sottoposte alle loro leggi. Era la disgregazione della sovranità imperiale, già scossa da una lenta crisi interna. Ai cinesi non restò che piegarsi all’imposizione oppure rivendicare la propria sovranità impegnandosi ad adottare un sistema giuridico di tipo occidentale, con leggi adeguate nel campo privatistico e commerciale. Nella seconda parte di questo libro, l’autore prima descrive sommariamente la natura e la struttura del codice Qing nel senso che si è detto, quindi le principali consuetudini che risultano, oltre che dai principi dell’etica confuciana, dalle disposizioni generali del codice Qing e dalle più diffuse consuetudini raccolte agli inizi del ‘900. Percorre infine la vicenda della codificazione novecentesca, dai primi studi alla più decisa azione intrapresa in età repubblicana sotto Sun Yat Sen prima e Chiang Kai Shek poi, che tra il 1930 e il 1931 portò all’adozione di un codice civile cinese. Conclude peraltro che la difficoltà di applicarlo in un periodo di forte instabilità politica e sociale lo resero «lettera morta» (p. 197) fino a che fu abrogato dai comunisti. La prima parte del libro riassume invece le linee principali di una generale storia della Cina ad uso scolastico e senza particolari nessi con la seconda. Difficile collocare il libro in qualche contesto. Intanto per la lingua in cui è scritto. A prima vista in italiano. In realtà in una sorta di pidgin-Italian che inceppa la lettura a ogni passo. È una tesi di dottorato discussa presso l’Università di Berna ed è ospitata in una collana diretta da un giurista italiano, Mario G. Losano. Si basa su una nutrita messe di opere inglesi, tedesche e francesi, dai quali Ponti ricava documenti e dati di fatto (gli editti imperiali sono riportati in inglese) ma non problemi interpretativi, tanto meno quelli discussi dagli studi di storia sociale del diritto, che sono oggi particolarmente attenti proprio alla circolazione dei modelli e agli scambi culturali. Offre quindi una lettura rigida e ben poco aggiornata della questione centrale, ovvero del nesso tra diritto scritto e pratiche consuetudinarie, tra la norma scritta e un «diritto che si adagia sui fatti» (Paolo Grossi), tra istituzioni plasmate sui modelli occidentali e «valori asiatici». Un nesso che gli studi tendono oggi a complicare, rivedendo proprio l’assunto essenziale del libro, per il quale le materie civilistiche rimangono appannaggio di pratiche sociali alle quali è estraneo il diritto. Insomma un libro italiano che italiano non è, e che parla di diritto e di pratiche con scarsa sensibilità per l’uno come le altre.

Raffaele Romanelli