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Il momento irlandese. L’Irlanda nella cultura politica francese tra Restaurazione e Secondo Impero

Manuela Ceretta
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 159 pp., € 27,00

Anno di pubblicazione: 2013

L’Irlanda è stata a lungo uno dei paesi europei la cui storia è stata meno studiata e conosciuta in Italia, con la parziale eccezione della questione dell’Ulster, e in paradossale contrasto con la passione con la quale si leggono e traducono le opere di James Joyce, W.B.Yeats ed altri. Tuttavia in anni recenti vari studiosi hanno iniziato a contribuire in modo significativo a una serie di dibattiti importanti, offrendo un punto di vista che spesso si distingue per originalità e freschezza, andando al di là degli schemi ossessivi di gran parte della storiografia in lingua inglese. Il momento irlandese è uno dei lavori più stimolanti e originali recentemente pubblicati su questo argomento in italiano, inglese o francese. L’a. va alla radice del dibattito con uno studio che analizza il modo in cui una serie di studiosi francesi di fama si posero di fronte alla «questione irlandese». L’isola si presentava alla ribalta internazionale innanzitutto come controparte della Gran Bretagna della Rivoluzione industriale: mentre quest’ultima era vista come un miracolo della tecnica e dell’ingegno umano, il paradigma della modernità, l’Irlanda – che pure faceva parte del Regno Unito – si trovava in una miserabile condizione sociale ed economica anche prima della carestia della patata (1845-50). L’a. analizza in modo elegante e lucidissimo la considerevole produzione accademica e politica degli autori francesi, storici, politici, filosofi e sociologi. Thierry, Montalenbert, Michelet e Tocqueville sono i principali scrittori studiati. Molti di loro «adottarono» l’Irlanda a scopo politico, polemico o illustrativo: sia che si trattasse di vederla come baluardo di quella civiltà «gallica» in lotta contro il mondo sassone, civiltà di cui la Francia si considerava esponente principale; sia che si trattasse del modello di civiltà cattolica «invitta» eppure pronta a modernizzarsi. Solo Tocqueville e il suo amico Beaumont – e anche la loro controparte italiana Cavour – cercavano di capire il problema in modo «scientifico».
Questo libro è al tempo stesso uno studio della cultura francese «allo specchio» e del modo in cui l’opinione colta europea si poneva di fronte al problema dell’arretratezza economica e agraria, soprattutto nel caso di un paese che era invece politicamente all’«avanguardia», come mostrò già negli anni ’20 del secolo Daniel O’Connell col suo movimento-partito cattolico-nazionale e liberal-popolare. Per la Francia, sospesa tra rivoluzione e reazione, questo era un esempio paradossale e affascinante. Per Tocqueville, che conosceva anche gli Stati Uniti (dove tanti irlandesi erano già al tempo emigrati, distinguendosi nella politica e producendo almeno due presidenti entro la metà del secolo), l’Irlanda era invece un’illustrazione dell’inarrestabile ascesa dello spirito democratico e della sua capacità di trasformazione sociale e politica. Nonostante la débâcle del Secondo Impero, il suo giudizio si rivelò, come in molti altri casi, accurato, penetrante e profetico.

Eugenio Biagini