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Oliviero Bergamini – Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone ad oggi – 2009

Oliviero Bergamini
Roma-Bari, Laterza, 343 pp., Euro 22,00

Anno di pubblicazione: 2009

In un suo volume di alcuni anni orsono, Il corpo del nemico ucciso (Torino, Einaudi, 2006), Giovanni De Luna si interrogava sui mobili confini visivi del ‘900, il secolo della violenza, dei consumi e dei mezzi di comunicazione «di massa», utilizzando il filtro cangiante della narrazione dei conflitti e della costruzione del nemico. Lo storico invitava il lettore a muoversi tra la guerra e le «false notizie» (di blochiana memoria), alla ricerca di un baricentro che aiutasse ad orientarsi su un terreno così complesso, tanto a livello documentale che divulgativo. L’avvertimento di De Luna può essere applicato al volume di Bergamini, giornalista, inviato Rai e docente di Storia del giornalismo, che si muove alla ricerca di un criterio organico e coerente per definire il rapporto tra la guerra, la sua narrazione giornalistica e la sua percezione attraverso le maglie della contemporaneità. Come emerge fin dalla copertina, che propone una foto di James Nachtwey – uno dei grandi fotoreporter bellici dell’ultimo quarantennio – con un bambino ruandese tra le braccia, nei giorni del genocidio del ’94, il gioco di specchi tra fonti e notizie resta però irrisolto e il carattere di sintesi critica, che doveva essere la cifra originale del volume, sembra in parte soffrirne. Il libro di Bergamini è, infatti, a tratti appassionato e interessante, ma resta inevitabilmente sospeso in un limbo singolare: è capace di offrire immagini e riflessioni suggestive e spunti critici, senza però spingersi fino in fondo nella lettura e nella storicizzazione dei nodi irrisolti del dualismo guerra-giornalismo. L’a. offre comunque un percorso di lungo periodo che coglie alcuni dei grandi passaggi simbolici di questo rapporto: dalla professionalizzazione del reporter bellico, incarnata da William Russell in Crimea, alla nascita del «grande inviato» nei primi anni del secolo (il modello Barzini nel «Corriere» di Albertini), passando per la Spagna della guerra civile (di Hemingway, Orwell, Capa e Guernica), l’Ernie Pyle del secondo conflitto mondiale e, naturalmente, le novità mediatiche che hanno accompagnato le guerre in Vietnam, nel Golfo, nei Balcani, fino alla «lotta al terrore» in Afghanistan e Iraq. L’analisi si sofferma sulle trasformazioni tecnologiche del reportage di guerra, sfiora il rapporto tra mezzo giornalistico e classi dirigenti ed economiche, richiama la censura, il colonialismo la propaganda, l’eroismo costruito a tavolino, la quotidianità del tommy, i paradossi atomici, fino alle guerre asimmetriche postmoderne. In questo senso, nei termini di una buona storia divulgativa, il libro offre diversi spunti, specie nell’ultima parte (dal Vietnam in poi). I dubbi irrisolti riguardano però alcune scelte di fondo (che uno scarnissimo impianto bibliografico e l’assenza di un vero apparato critico non aiutano a chiarire): dalla periodizzazione, che soffre di alcuni salti che ne mettono a rischio l’organicità, alla geografia del libro che lascia troppi coni d’ombra su alcune aree del mondo (America latina in primis), non aiutando così la coerenza di una narrazione globale.

Massimo De Giuseppe