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Padraic Kenney – Il peso della libertà. L’Europa dell’est dal 1989 – 2008

Padraic Kenney
Torino, Edt, 212 pp., euro 18,00 (ed. or. Nova Scotia, 2006)

Anno di pubblicazione: 2008

Non vi è compito più ingrato per lo storico che tentare di ricostruire il passato «più recente» e dover scrivere una storia post-contemporanea senza avere a disposizione i classici strumenti del mestiere; non solo quindi i materiali d’archivio, ma anche una riflessione storiografica consolidata sulla quale appoggiarsi. Se a questo aggiungiamo la necessità di coprire i 17 paesi che compongono oggi l’area dell’Europa centro-orientale, la sintesi manualistica di Kenney, studioso specializzato nella Polonia postbellica e già autore di un volume dedicato al 1989 (A carnival of revolution: Central Europe, 1989, Princeton, 2002), si propone addirittura l’impossibile. Date queste premesse, la lettura del volume si rivela una piacevole sorpresa. Pur rinunciando infatti a un approccio diacronico, l’a. riesce a tracciare un percorso cronologico e tematico sufficientemente chiaro per il destinatario principale del volume: gli studenti universitari. Troviamo quindi nel volume, in capitoli distinti, i principali temi che contraddistinguono l’analisi della situazione est-europea dopo il crollo del regime comunista: le concause dell’implosione del sistema sovietico, la creazione delle istituzioni democratiche, la transizione economica, i fattori di rischio e conflitto quali le questioni etniche, e da ultime le prospettive di integrazione nel nuovo contesto internazionale. Kenney individua correttamente come fattore scatenante del crollo dei regimi comunisti l’insostenibilità economica del modello di pianificazione e solo in seconda battuta la perdita di legittimità ideologica. Confutando una tesi tuttora diffusa, afferma che i movimenti di opposizione furono ovunque (perfino in Polonia) più deboli e marginali di quanto gli osservatori coevi immaginassero. Mette inoltre in guardia da facili generalizzazioni sull’influenza del liberismo economico soprattutto nei primi anni ’90. I governi delle nuove democrazie est-europee ascoltavano infatti gli esperti del Fondo monetario internazionale, ma poi proseguivano con i propri programmi, basati sul tentativo di mantenere in piedi il sistema di assistenza sociale ereditato dal socialismo reale. Altrettanto convincente il giudizio su un bilancio socio-economico in chiaroscuro della transizione: maggiore benessere diffuso e sacche di povertà estrema si alternano con sempre maggiore frequenza, e le responsabilità di ciò vanno divise fra l’eredità del comunismo e la scarsa lungimiranza del mondo occidentale, che non ha offerto alcun sostanziale contributo alla rifondazione economica della regione. Meno penetrante, più giornalistico e influenzato da una letteratura transitologica di non eccelso livello appare invece il lungo capitolo 2, dedicato ai nazionalismi, così come la minuziosa ricostruzione dell’appoggio est-europeo all’intervento statunitense in Irak. La questione delle comunità rom, la più ampia e disadattata minoranza dell’intera Europa, viene ad esempio liquidata in pochi paragrafi che toccano sì il problema del pregiudizio etnico e del rispetto dei diritti umani, ma eludono le ben più profonde implicazioni demografiche e socio-economiche di una questione controversa e sino ad ora rimossa dal dibattito civile.

Stefano Bottoni