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Roberto Gualtieri – L’Italia dal 1943 al 1992. DC e PCI nella storia della Repubblica – 2006

Roberto Gualtieri
Roma, Carocci, 301 pp., euro 23,50

Anno di pubblicazione: 2006

La chiave interpretativa di Gualtieri è esplicitata subito. Leggere l’Italia non come eccezione o anomalia ma come uno degli n casi dell’Europa occidentale; con specificità e peculiarità, ovviamente, ma in linea con quanto si muoveva nell’economia e nella politica internazionale. Vale a dire, un paese non isolato e marginale che, in linea con la sua collocazione internazionale e la sua adesione all’integrazione economica europea, si sviluppa lungo le linee dell’economia di mercato temperata dal keynesismo e dall’ideologia della programmazione e della democrazia rappresentativa parlamentare. In questo sviluppo virtuoso campeggiano i due maggiori partiti, DC e PCI, cui l’autore attribuisce un ruolo assai positivo. Su questa valutazione credo ci sia spazio per dissentire. A nostro avviso, è proprio la loro egemonia a produrre quel tasso di eccentricità che ha comunque connotato il sistema italiano. Le ragioni sono arcinote: dalla loro legittimazione esterna alle loro culture politiche, estranee ai valori fondanti del sistema politico liberal-democratico, dalla predilezione-vagheggiamento, l’uno apertamente (il PCI) l’altro a mezza bocca (la DC), per collocazioni internazionali diverse alla diffidenza per la modernità e i suoi by-products. Gualtieri tende a smorzare queste peculiarità insistendo in particolare sulle iniziative sistemiche del PCI, come la sconfitta delle pulsioni insurrezionaliste di Secchia o l’atteggiamento di fermezza contro il terrorismo rosso o ancora la promozione della politica di austerità: ma sono solo un versante della medaglia. Inoltre appare francamente un po’ forzata l’immagine di una Chiesa usbergo dell’antifascismo (basti ricordare come venne umiliato De Gasperi nei suoi anni di rifugio vaticano) o addirittura vantare per l’URSS e il Comintern un ruolo di fecondo retroterra per i quadri della Resistenza. Certamente de Gasperi e Togliatti furono in grado di «rielaborare autonomamente il vincolo esterno» (p. 21), ma ridurre il percorso della democrazia italiana a questi due grandi attori e alle loro organizzazioni è fuorviante. Soprattutto riesce difficile comprendere quale sia stato il ruolo modernizzante del PCI. Per non dire della rigidità ideologica con cui il gruppo dirigente del Partito ha difeso fino all’ultimo la superiorità, e poi la diversità, comunista rispetto alla socialdemocrazia, sprezzantemente criticata fino alla vigilia del 1989. Stupisce poi non trovare traccia, nel testo, della crisi culturale verticale in cui precipita il PCI sotto l’attacco di Norberto Bobbio, quando il filosofo nel 1975-76, con i suoi celebri saggi su «Mondoperaio» affonda il coltello della critica nel dogmatismo marxista; e, dall’altra parte, riservare così poco spazio all’impatto del Concilio Vaticano II e del dissenso cattolico. Infine, una focalizzazione sulle vicende dei due maggiori partiti ha messo un po’ troppo in ombra la società. Se la si tenesse in conto, allora si potrebbe leggere la vicenda dei due grandi partiti in maniera speculare rispetto a quanto ci propone l’autore e cioè come un elemento di chiusura, di conformismo e di arretratezza rispetto alle domande e alle energie espresse a partire dagli anni Sessanta. Ma sarebbe stato un altro libro.

Piero Ignazi