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Roberto Maiocchi – Scienza italiana e razzismo fascista – 1999

Roberto Maiocchi
La Nuova Italia, Firenze

Anno di pubblicazione: 1999

Due tesi fra loro connesse intende qui confutare Maiocchi: quella relativa ad un’estraneità sostanziale dei temi razzisti alla cultura italiana precedente il 1938, e quella che insiste su una natura opportunistica, propagandistica della presunta conversione avvenuta l’anno delle leggi razziali. È sua convinzione infatti che queste siano soltanto l’esito finale di processi di più lunga durata, e che nel preparare un terreno favorevole l’opera degli scienziati abbia senza dubbio pesanti responsabilità. In altri termini, durante i primi decenni del secolo, e specialmente dopo la Grande Guerra, erano già stati gettati molti e robusti semi, ad elencare e descrivere i quali il libro s’intrattiene diffusamente.
Nel primo capitolo, dove protagonista è l’eugenica, l’a. conferma che l’Italia ne confezionò una versione peculiare e moderata, in obbedienza al pronatalismo di regime e all’interdetto papale della Casti Connubii. Prudenza e rifiuto d’ogni eccesso: tonalità che facilitarono l’intesa con la morale cattolica. Di rado, pertanto, s’incontrano pareri inclini all’eugenica cosiddetta “negativa”, persuasa di dover procedere alla sterilizzazione degli inadatti. Nel maggio 1927 il discorso dell’Ascensione avrebbe saldato fra loro la sollecitudine per la salute della razza, il dogma popolazionista, un certo “migliorismo” sanitario ed assistenziale, sino a configurare quell’ortodossia che non ammetterà d’allora in poi dissensi.
A questo filone prevalentemente medico s’affianca, come secondo vettore di razzismo italico, l’apporto recato da demografi e statistici, che con tenacia garantirono spessore e giustificazione teorica alla volontà d’essere “molti e forti”, per conquistare territori altrui e per sottomettere popolazioni “inferiori”. Un terzo plotone schierato a celebrare il valore di quella “razza mediterranea” eterogenea e composita il cui passato faceva presagire future glorie, fu offerto dalle scienze dell’uomo, nell’accezione che in Italia avevano voluto dar loro Paolo Mantegazza e Giuseppe Sergi, con le rispettive scuole fiorentina e romana. Dopo il ’38, per inciso, una cospicua crescita degli insegnamenti universitari destinati allo studio della questione razziale ben ricompensò i servizi resi dagli antropologi.
Sin qui Maiocchi raccoglie ed organizza dati già largamente disponibili in letteratura; oltre a ciò, tenta nell’ultimo capitolo di decifrare in chiave essenzialmente politica le complesse ed alterne vicende toccate alle due forme di razzismo che si contesero il terreno fra il ’38 e la caduta del fascismo. Gli sembra innegabile che le tesi del Manifesto del 14 luglio smentiscano quanto fino allora aveva pensato buona parte della cultura italiana in fatto di razza: ad una merce straniera e sgradita, importata per compiacere l’alleato tedesco, reagirono alcuni ambienti intellettuali, con un paziente esercizio di rettifica teso a ripristinare la tradizione e il gergo di un razzismo domestico affezionato ai valori “spirituali” più che a quelli biologici. Di tale manovra Maiocchi individua ed analizza i numerosi operatori.

Claudio Pogliano