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The Dynamics of Big Business: Structure, Strategy, and Impact in Italy and Spain

Veronica Binda
New York, Routledge, 303 pp., $ 110,64

Anno di pubblicazione: 2013

Nell’editoriale della primavera 2011 che apriva la nuova serie della più prestigiosa rivista di storia d’impresa, la Business History Review, i suoi editori si lamentavano di come fosse ancora possibile ricevere articoli in cui s’incontravano frasi come: «Chandler era in errore quando affermava…». La loro intenzione era rilevare quello che a loro sembrava un limite dell’odierna storia d’impresa, il fatto che questa fosse ancora immersa nella disputa sulla validità del paradigma di Chandler sullo sviluppo della grande industria moderna, evidenziando così una mancanza di vivacità della disciplina.
Nonostante quelle autorevoli – anche se discutibili – indicazioni sembrassero annunciare la conclusione di una disputa quarantennale, il recente studio di Veronica Binda segna una controtendenza. L’a., lettrice all’Università Bocconi di Milano, interviene in quel dibattito con un solido studio comparativo condotto sullo sviluppo della grande industria in Italia e Spagna tra gli anni ’50 e l’inizio del XXI secolo. La scelta delle unità di comparazione non è affatto casuale, poiché mira a colmare una tradizionale assenza di studi sulla grande industria nei paesi latecomer dell’Europa meridionale (p. 7). Le ragioni di questa mancanza in letteratura sono riconducibili all’idea diffusa, ma niente affatto provata empiricamente, che in Italia e Spagna la grande industria sia stata storicamente marginale. Secondo un’applicazione rigida del paradigma chandleriano della centralità della grande impresa multidivisionale e diversificata, sviluppato a partire dall’esperienza americana, ciò spiegherebbe i ritardi e gli arretramenti di questi paesi.
Al contrario, come mostrato nel quarto capitolo, anche se in media le grandi industrie sono di dimensioni minori, il loro contributo «al PIL in questi paesi dell’Europa meridionale è sicuramente comparabile a quello che si è visto negli Stati Uniti [e] Regno Unito» (p. 207). Secondo l’a., gli elementi che realmente differenziano l’esperienza dei due paesi mediterranei rispetto a quella dei grandi paesi industrializzati sono, da un lato, i differenti settori economici – principalmente non manifatturieri – in cui la grande industria si sviluppa e, dall’altro, il tipo di proprietà e di controllo in esse esercitato, caratterizzato dalla presenza di capitali stranieri e dall’importanza della conduzione familiare e statale.
Fu questo uno sviluppo economicamente «irrazionale»? La risposta dell’a. è assolutamente negativa, ed è qui che si trova il contributo più originale del volume. Ciò che emerge, in particolare dai capitoli 7, 8 e 9, è che fu il contesto politico e sociale in cui le imprese si trovarono a operare che contribuì in modo determinante alle loro scelte organizzative e industriali. Un elemento analitico che colloca questo studio all’interno dell’approccio «contestualista», attualmente tra i più proficui della disciplina, fornendo allo stesso tempo delle indicazioni di lavoro per una rinnovata stagione di studi sulla grande industria nell’Europa meridionale.

Alfredo Mazzamauro