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Matite sbriciolate. I militari italiani nei lager nazisti: un testimone, un album, una storia comune

Antonella Bartolo Colaleo
Soveria Mannelli, Rubbettino, 306 pp., € 18,00

Anno di pubblicazione: 2018

Il testo è un debito di memoria dell’a. nei confronti del suocero, da lei chiamato
«nonno Antonio», un ex Imi pugliese venuto a mancare il 9 gennaio del 1994, tanto che
Colaleo titola le sue conclusioni Ho mantenuto la promessa (p. 295).
Antonio è figlio di Emanuela, sposata dal padre in seconde nozze. «È il maschio»
della famiglia e le sorelle investono ogni risorsa familiare per promuoverne gli studi e
sostenere i costi dell’Accademia militare di Modena, che lui frequenta dal 1932 al 1934.
In servizio presso il 265° Reggimento Fanteria, nel 1937 è trasferito a Rodi, dove alloggia
in una zona riservata agli ufficiali italiani. Fa la campagna di Grecia e dopo l’8 settembre,
catturato a Creta dai tedeschi, viene internato in Germania. Nel suo «Stato di Servizio»
non ci sono notizie sui luoghi di prigionia militare in cui finisce, riportati unicamente in
una sorta di «scaletta della prigionia» redatta dallo stesso testimone (p. 54).
La «scaletta» contiene l’annotazione dei luoghi e delle date di internamento: Biała
Podlaska, Dęblin, Sandbostel e Wietzendorf; assieme ai disegni e a qualche narrazione
sparsa essa rappresenta l’unico lascito di cui l’a. dispone per ritessere la storia del parente.
Il suo sforzo di ricostruzione è significativo: data la carenza documentaria che deve scontare,
è costretta ad esplorare gli archivi dell’Anei (Associazione nazionale ex internati),
dell’Anrp (Associazione nazionale reduci dalla prigionia, dall’internamento, dalla guerra
di Liberazione), della Cri (Croce Rossa internazionale), dei musei dislocati nei luoghi
di prigionia militare in cui il «nonno» era stato internato e l’Archivio segreto vaticano.
All’analisi documentaria l’a. coniuga letture della memorialistica e della storiografia più
avvertita.
C’è tuttavia in lei un atteggiamento marcatamente simpatetico nei confronti del
testimone che non le permette un’analisi sempre lucida e distaccata, come quando insiste
sull’«antifascismo» del nonno, non necessariamente comprovato dai fatti. Racconta per
esempio che a Biała Podlaska pressoché l’intero campo aveva detto sì alla proposta dei
fascisti di adesione alla Rsi: «su 2600 soldati solo 145 dissero di no» (p. 116). Poi osserva:
«Nonno Antonio il 15 gennaio ’44 venne trasferito da Biała Podlaska al campo tedesco
di Sandbostel. Fu certamente tra quelli che dissero NO, visto che la prigionia si protrasse
in Germania fino all’agosto del ’45. Ma perché non ci parlò mai dei fatti di Biała Podlaska?
Riservatezza? Timore di non essere compreso? Certezza di avere fatto solo il proprio
dovere?» (p. 117). Come fa allora a dire che Antonio aveva detto di «no»? L’effetto di
trascinamento della memorialistica le fa poi fare affermazioni non sempre corrette dal
punto di vista storico.
Chi prenderà in mano questo testo vi troverà un prezioso tassello della memoria degli
Imi, mentre dovrà scartare l’ambizione di Colaleo di inquadrarlo storicamente. Semmai
la lezione che se ne ricava una volta di più è che la storia richiede competenze specifiche e
che a farla devono essere gli storici.

Giovanna D’Amico