Cerca

Sudditi di Libia

Gabriele Bassi
Milano-Udine, Mimesis, 278 pp., € 24,00

Anno di pubblicazione: 2018

Il colonialismo, anche quello italiano, si è nutrito di immagini e immaginari dei territori
da sottoporre al dominio coloniale, delle popolazioni che li abitavano, oltre che dei
colonizzatori stessi. Questi sistemi discorsivi da un lato riattivavano materiali preesistenti
nella cultura europea, dall’altro li modificavano, o ne creavano di nuovi, con l’obiettivo di
disegnare un quadro all’interno del quale i progetti politici espansionisti trovassero senso
e legittimazione. Inserendosi in un filone storiografico che ormai ha rinnovato gli studi
sul colonialismo italiano, esaminandone vicende e ricadute da una prospettiva culturale, il
lavoro di Gabriele Bassi si pone l’obiettivo di analizzare quali immagini della popolazione
libica abbiano accompagnato la storia dell’occupazione del territorio nordafricano dalla
guerra del 1911-1912 sino al secondo conflitto mondiale, e quali abbiano accompagnato
il discorso sulla Libia negli anni ’50 e ’60.
Utilizzando un corpus di fonti variegato e articolato, che include in primo luogo la
pubblicistica sia scientifica sia divulgativa, insieme alle monografie pubblicate da soggetti
con ruoli e formazioni differenti, l’a. propone una trattazione che mette in evidenza
innanzitutto l’impossibilità di parlare di una rappresentazione univoca dei libici. Bassi,
al contrario, mostra come l’immagine pubblica proposta dalla stampa si modifichi al
modificarsi delle condizioni e delle esigenze politiche, accentuando di volta in volta gli
elementi che sono funzionali al momento storico. Particolarmente interessante è a questo
proposito il capovolgimento dell’immagine dei libici dal punto di vista religioso: descritti
come fanatici all’esordio della politica coloniale, in un contesto in cui l’esasperazione
dell’elemento irrazionale era funzionale a sostenere il discorso sulle potenzialità civilizzatrici
e modernizzatrici dell’Italia, negli anni ’30 i sudditi musulmani diventano invece
come portatori di una visione del mondo compatibile con quella del regime, addirittura
letta in chiave antibolscevica (pp. 320-321).
Allo stesso tempo, però, l’a. dimostra come alcune singole immagini e aggettivazioni
attribuite ai libici (la violenza, la sporcizia) – e, come nella migliore delle tradizioni orientaliste,
applicate aprioristicamente, senza attenzione alle diversità e alle complessità interne
di una popolazione che viene naturalizzata – siano perlopiù tratte da un più ampio
immaginario attorno alle popolazioni arabe, e attraversino la produzione culturale italiana
con una certa continuità, dal periodo liberale a quello fascista finendo per costruire, anche
nel dopoguerra, il discorso sulla Libia e i libici.
Il lavoro di Bassi, come rivendicato dallo stesso autore nelle Conclusioni, seppure con
una certa sinteticità (inevitabile, data l’ampiezza anche cronologica della problematica
esaminata) compie un’operazione utile quanto necessaria, quella di «scendere nei dettagli
di questa cultura della superiorità occidentale», analizzando nei vari contesti dove questa
si sarebbe mostrata e in che modo l’avrebbe fatto (p. 239).

Valeria Deplano