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Edoardo Weiss a Trieste con Freud. Alle origini della psicoanalisi italiana,

Rita Corsa
Roma, Alpes Italia, 217 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2013

La compianta Anna Maria Accerboni aveva già dimostrato quanta importanza abbiano
avuto, nell’origine della psicoanalisi a Trieste, le centinaia e centinaia di cartelle
cliniche vergate a mano dal dottor Edoardo Weiss negli anni che immediatamente seguirono
la fine della Grande guerra, quando dirigeva l’Ospedale psichiatrico provinciale
di Trieste. Su questa strada, Rita Corsa allarga l’indagine a tutti gli anni che precedono
l’esilio di Weiss a Roma. Weiss ebbe fra i suoi pazienti il pittore Arturo Nathan, il cognato
di Svevo (Bruno Veneziani), ma anche un volgo senza nome di superstiti della Grande
guerra. La prima osservazione da fare riguarda il metodo di Weiss: la raffinata cura nella
ricostruzione anamnestica, «prezioso lascito», osserva l’a., «della nosologia fenomenologica
francese» (p. 54).
La conoscenza di Freud e l’avvio di un’attività di libera professione segnarono una
svolta nella biografia di Weiss. Nel libro sono riprodotte le lettere scambiate con il padre
della psicanalisi, ma il punto forte della ricerca è costituito dall’analisi delle cartelle
cliniche nel decennio 1919-1928. La gran parte dei pazienti di Weiss era composta da
veterani della Grande guerra, i cosiddetti «scemi di guerra», che dopo un lungo ricovero
al manicomio giuliano venivano restituiti all’affetto dei loro cari. Non tutti erano italiani.
Si trattava per lo più di reduci tedeschi, slavi, balcanici, colpiti dalle più diverse patologie:
ipovedenti per scoppio di granate, psicosi belliche, casi di isteria. Risulta evidente che la
prima fase del lavoro di Weiss si svolse ancora fuori del cerchio freudiano: sono proprio
alcuni casi di psicosi «mista», combinazione di sintomi melanconici e della sfera paranoide,
che lo spinsero a comporre i primi scritti psicoanalitici fra 1925 e 1926, su cui già
Accerboni aveva concentrato la sua attenzione.
Il libro mette in evidenza anche la non semplice relazione con Trieste: al di là del
quadro idillico che spesso viene diffuso come uno stereotipo culturale, la conflittualità anche
all’interno della comunità ebraica fu alla base della scelta successiva di Weiss, del suo
trasferimento a Roma, della collaborazione all’Enciclopedia e della maturità all’insegna
dell’ortodossia freudiana. Il libro si presenta forse un po’ eterogeneo nella stesura, con una
lunga – e forse superflua – cornice storiografica che toglie spazio e rende troppo concentrata
la parte documentaria; quest’ultima invece del tutto nuova e assai notevole. Weiss,
oltre che un medico eccelso, possedeva come i migliori analisti la dote del racconto: le sue
anamnesi si leggono come se fossero novelle mitteleuropee e viene spontaneo ricordare
la frase famosa di Svevo sulla psicoanalisi inutile come cura, ma fonte meravigliosa per i
romanzieri.

Alberto Cavaglion