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Warfare-welfare. Intervento dello Stato e diritti dei cittadini (1914- 1918)

Giovanna Procacci
Roma, Carocci, 197 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2013

Prendendo le mosse dal concetto di «guerra totale», questo pregevole ed accurato
volume indaga l’ambivalente rapporto tra istituzioni statali e cittadini durante il primo
conflitto mondiale. Pur in maniera contingente e in forme non universalistiche, la guerra
pose le basi per la nascita del moderno welfare state: la necessità di consolidare i fronti
interni determinò sensibili integrazioni alle politiche otto-novecentesche; a questo proposito
l’analisi dei casi inglese e tedesco («graduale» e legato alla cittadinanza il primo,
impositivo-paternalistico quello bismarckiano) rivela come il tornante bellico apportò
una decisa espansione dei diritti sociali e delle politiche assistenziali. L’a. ripercorre il tormentato
percorso del welfare italiano sottolineando gli elementi di continuità (misure tardive,
poco inclusive e scarsamente applicate, indifferenza della classe dirigente), le novità
introdotte dal conflitto quali l’aumento delle prerogative statali (regolazione economica,
mediazione occupazionale, varo di inedite relazioni industriali), e il deciso ampliamento
delle misure sociali non solo nei confronti degli operai, ma anche di contadini, orfani, vedove
e profughi. L’azione di sostegno, pur rilevante, almeno sino alla «rimobilitazione» del
1917-1918 fu disorganica, con l’effetto di delegittimare le istituzioni statali ed accrescere
la rivalsa popolare; si trattò quindi di un percorso incompleto: nel dopoguerra fu varata la
riforma delle assicurazioni di invalidità e vecchiaia, ma il progetto di assistenza sanitaria
fallì. L’altro versante dell’intervento statale fu l’adozione di sistemi di controllo preventivi
e repressivi, una prassi che in Europa ebbe modalità uniformi ma incidenza diversa in
relazione al prevalere del potere militare su quello civile. Sulla scorta delle più recenti acquisizioni
storiografiche, l’a. prende in considerazione il problema degli internamenti in
Italia sottolineando come tali misure extragiudiziali costituirono motivo di attriti e contrastanti
interpretazioni tra le autorità civili e militari. Diversamente dagli altri Stati, dove
colpì gli «stranieri nemici», in Italia l’internamento fu utilizzato dai comandi militari per
colpire il «nemico interno» socialista o allontanare dalla zona di guerra tutte le categorie di
persone che, sulla base di semplici sospetti, potevano nuocere alla sicurezza nazionale. Già
durante la guerra il confino divenne quindi il simbolo dell’estensione del potere militare
in ambito civile, che solo il governo Orlando, in una sorta di crescente spirale repressiva,
riuscì a controbilanciare, concedendo nei primi mesi del 1918 ai prefetti al di fuori della
zona di guerra, la facoltà di allontanare o internare persone sospette. Attraverso l’analisi
delle normative sugli internamenti e del poco noto «Piano di difesa», qui esaminato dalla
sua formulazione giolittiana dopo lo sciopero generale del 1904, l’a. mette in luce come
tali provvedimenti repressivi furono istituzionalizzati dal fascismo e come il prolungato
«stato di eccezione» bellico contribuì a preparare l’abdicazione dei diritti individuali di
fronte al «superiore interesse» dello Stato.

Matteo Ermacora