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Il processo Eichmann

Deborah E. Lipstadt
Torino, Einaudi, pp. XXIV-183, € 27,00 (ed. or. New York, 2011, trad. di Maria Lorenza Chiesara)

Anno di pubblicazione: 2014

Il processo, immortalato dal resoconto di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), è raccontato con una descrizione accurata ma piuttosto convenzionale da parte della storica americana, nota soprattutto per il suo impegno contro il negazionista David Irving che le intentò causa per diffamazione nel 1995. Le vicende dell’individuazione in Argentina del criminale nazista, del suo arresto e trasferimento in Israele, della costruzione e dello svolgimento del processo e dei suoi echi israeliani e internazionali, sono ricostruiti sulla memorialistica e – senza aggiungervi molto – sull’ormai ricca storiografia, che include contributi decisivi dell’ultimo ventennio circa (tra cui Segev, Yablonka e Cesarani).
Il volume rivela piuttosto un bersaglio polemico in Hannah Arendt e nella sua interpretazione di Eichmann, cui è dedicato l’intero penultimo capitolo. L’a. non si limita a ricostruire le reazioni negative suscitate soprattutto nel pubblico americano dal reportage della filosofa, ma ripercorre quelle che ritiene deformazioni ed errori, oltre a criticare l’atteggiamento della studiosa, indubbiamente ambivalente, nei confronti della società israeliana del tempo e verso la conduzione del processo. Uno degli aspetti più controversi dell’interpretazione di Arendt fu il suo giudizio sui collaborazionisti dei Consigli ebraici insediati dai nazisti nei ghetti, e sull’atteggiamento esclusivamente passivo con cui gli ebrei sarebbero andati al massacro; ma l’a. non riconosce che Arendt inseriva quelle esperienze nel generale sfacelo morale della Shoah, in cui vittime e carnefici poterono incontrarsi in quella che Primo Levi avrebbe chiamato «zona grigia» (espressione utilizzata a p. 159, ma senza riferirla allo scrittore). L’errore fondamentale della Arendt fu tuttavia, secondo l’a., l’insistenza sulla natura burocratica di Eichmann, visto come carnefice funzionario, che sottovalutava il fattore ideologico dell’antisemitismo e non inseriva la Shoah nella storia millenaria dell’odio antiebraico di cui essa rappresentò il vertice.
Il libro torna quindi a un’interpretazione intenzionalista della Shoah, non tanto rispetto a un ruolo centrale di Hitler – e tanto meno di Eichmann – quanto nell’enfasi sulla funzione dell’ideologia e della sua storia, sottovalutando il contesto (la seconda guerra mondiale) e i diversi ruoli e funzioni, nonché i processi di burocratizzazione, che presiedettero all’Olocausto.
Parzialmente indebolito dall’uscita in contemporanea dell’innovativo tomo di Bettina Stangneth, Eichmann vor Jersualem (2011), che pure getta nuova luce sul volto demoniaco di Eichmann, il volume offre una leggibile sintesi sul processo, ma non costituisce un passo avanti nella storiografia sulla «Soluzione finale», trascurando la natura «banale» e «comune» di molti aspetti del genocidio degli ebrei e dei suoi carnefici e non offrendo spunti particolarmente originali sul processo e i suoi effetti nell’«era del testimone» (il volume di Annette Wieviorka, che ideò questa definizione, viene tra l’altro ignorato).

Simon Levis Sullam