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Il pogrom – 2007

Adam Michnik
Postfazione di Francesco Cataluccio, Torino, Bollati Boringhieri, 75 pp., Euro 7

Anno di pubblicazione: 2007

Il 14 luglio 1946 una folla inferocita attaccò i sopravvissuti ebrei della cittadina polacca di Kielce, vicino a Cracovia, uccidendone quarantadue e ferendone un centinaio. Questo saggio di Michnik, storico di professione, dissidente di punta negli anni ’80 e redattore del quotidiano «Gazeta Wyborcza», non è la ricostruzione degli eventi, affidata alla postfazione di Francesco Cataluccio. All’a. interessa confrontare le posizioni assunte, rispettivamente, dal vescovo di Kielce, monsignor Czes?aw Kaczmarek, e dal vescovo di Cz?stochowa, Teodor Kubina. Nel rapporto preparato da Kaczmarek e consegnato ad Athur Bliss-Lane, ambasciatore americano a Varsavia, il pogrom di Kielce è interpretato come una risposta alla collaborazione degli ebrei con il regime comunista, come effetto della credenza che gli ebrei compissero omicidi rituali su bambini non ebrei e della convinzione che agli ebrei in Polonia «fosse permesso tutto, che potessero passarla liscia». Contro questo documento, infarcito di stereotipi antisemiti, si levò la voce unica, e per questo ancora più significativa, del vescovo Kubina che, nel suo appello alle comunità di Kielce e di Cz?stochowa, espresse compassione per le vittime, «cittadini polacchi di nazionalità ebraica», e orrore per un assassinio che calpestava la dignità umana e violava il comandamento che ordina di «non uccidere». L’appello del vescovo Kubina, scrive giustamente Michnik, è una delle più belle testimonianze della Chiesa cattolica in Polonia, una condanna del crimine senza se e senza ma. Eppure… Il testo si articola attraverso una serie di «eppure», con i quali l’a. introduce argomenti che mettono in dubbio quanto prima affermato e razionalizzano e giustificano il comportamento delle gerarchie della Chiesa. Uno di questi è che i vescovi non potevano condannare ufficialmente l’antisemitismo, perché ciò li avrebbe resi complici di un regime, quello comunista, che di quella accusa si serviva per screditare la resistenza anticomunista. Anche gli ebrei, continua Michnik, ebbero la loro responsabilità: il rabbino Kahan, ad esempio, che pure conosceva la realtà polacca, avrebbe dovuto fare appello alla comunità ebraica perché evitasse di collaborare con i comunisti. Perché è vero, conclude l’a., che, seppure non tutti, molti ebrei compirono, in nome del comunismo, «ribalderie e crimini». Gli stessi crimini furono compiuti dai comunisti polacchi, senza che ciò desse luogo a uno stereotipo paragonabile a quello del «giudeo-comunismo», né tanto meno a pogrom. Il testo di Michnik è importante perché riconosce e svela in che modo la gerarchia cattolica polacca utilizzava nei suoi discorsi stilemi antisemiti. «Eppure» l’a. non riesce a liberarsi di una forma mentis che nel voler pesare i pro e i contro finisce per riconfermare le posizioni giustificazioniste così diffuse in Polonia. Molto più efficace sarebbe una ricostruzione che, inserendo il pogrom nel contesto storico, si interrogasse sul perché, nell’atmosfera di generale violenza contro gli ebrei scoppiarono solo due pogrom e proprio a Kielce e Cracovia, due città della Galizia orientale che, sotto l’occupazione nazista, furono soggette a un regime meno brutale di quello di altre regioni e nelle quali la collaborazione fu più estesa.

Carla Tonini