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Antigiudaismo: la tradizione occidentale

David Nirenberg
Roma, Viella, 442 pp., € 39,00 (ed. or. New York, W.W. Norton, 2013, traduzione di Giuliana Adamo, Paolo Cherchi)

Anno di pubblicazione: 2016

Volume dal respiro ambizioso, che ha come modelli opere quali Mimesis di Eric
Auerbach e Orientalismo di Edward Said, cioè riletture complessive della tradizione europea
a partire da una specifica struttura di pensiero o ideologica: qui l’antiebraismo, dal
cristianesimo antico fino al XX secolo.
Secondo l’a., l’antigiudaismo, cioè l’ostilità e contrapposizione alla religione ebraica, ha
costituito nei secoli un filtro o una prospettiva costante di osservazione per l’intera cultura
occidentale. Momenti fondativi di questo percorso, cui sempre si ritorna: gli scritti neotestamentari,
in particolare per la «carnalità» ebraica che Paolo contrappone alla spiritualità
cristiana; i padri della Chiesa, tra cui Giovanni Crisostomo che definisce gli ebrei «antitipi»
dei cristiani e persino degli umani; Agostino e la sopravvivenza ebraica nonostante il mancato
riconoscimento di Gesù come messia, testimonianza perpetua del loro errore.
Come l’a. dice appunto per Crisostomo, la teologia come radice, e il pensiero cristiano
in genere, avevano «insegnato a vedere i pericoli in chiave giudaica» (p. 90). Si trattava
di una sorta di «logica» – termine che attraversa il volume – del pensiero e dell’immaginario
europei, cioè la contrapposizione al «giudeo» come «altro», che si trasmise attraverso
le epoche, per rappresentare e interpretare la società, l’economia, il potere, persino il
rapporto tra passato, presente, futuro. Contrapposizione a, ma anche «sostituzione» del
giudaismo, che per esempio emerge, nella modernità, nel pensiero di Rousseau e poi in
quello della Rivoluzione, che immaginano la fondazione dei nazionalismi come nuovo
patto mosaico ed «elezione». Ma prima di allora stigmatizzare la «giudaizzazione» della
società era servito ai sovrani spagnoli per rifondare il loro Stato cristiano; oppure a Lutero,
che l’aveva riferita alla Chiesa romana, per criticarla e riformarla. Più tardi Kant criticò il
materialismo ebraico e Hegel lo spiritualismo legalistico degli ebrei. Marx, notoriamente,
farà dell’ebreo un simbolo del denaro e, in sostanza, del capitalismo.
Sulla scia di Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, si tratta dunque
di condurre «una riflessione sul nostro “comportamento proiettivo”, ovvero sui modi in
cui il nostro spiegamento di concetti nel e sul mondo possa generare fantasie “patologiche”
sull’ebraismo» (p. 336). Questo approccio ha il vantaggio di disincarnare l’«ebreo»
dell’antisemitismo, che diviene così essenzialmente proiezione di funzionamenti e meccanismi
del «non-ebreo», cioè della maggioranza cristiana, senza alcun collegamento con
l’esperienza ebraica. L’antiebraismo sarebbe quindi non un’ossessione ebraica, ma una
modalità cognitiva dell’Occidente cristiano, «una potente struttura teorica per dare senso
al mondo» (p. 333).
Molti gli interrogativi che il massiccio, talora faticosamente erudito volume suscita.
Tra questi: può la storia di un’idea spiegare la «tradizione occidentale», in particolare i suoi
odi e la sua violenza? Solo l’odio e l’ostilità spiegano questa tradizione? Ma anche: dopo
gli ebrei, a chi toccherà nei prossimi duemila anni?

 Simon Levis Sullam