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Benny Morris – La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli stati arabi – 2007

Benny Morris
Milano, Rizzoli, 650 pp., Euro 25,00

Anno di pubblicazione: 2007

Nel 1988, a 40 anni dalla nascita di Israele, Morris sanciva con la sua opera prima, The Birth of the Palestinian Refugee Problem, la nascita della cosiddetta «Nuova Storiografia» israeliana. Alla vigilia del sessantenario, egli torna a quel 1948 che vide la nascita d’Israele, l’entrata in guerra della Lega Araba e il culmine della «sciagura», la nakba palestinese. Vi torna apportandovi nuovi dati di archivio e le conclusioni raggiunte dai nuovi storici israeliani, ma anche da quelli palestinesi, mettendo a fuoco personaggi e fasi di una trama ormai nota e affinandone i dettagli: il governo britannico, ansioso di uscire dalla trappola palestinese, i leader mondiali che sottovalutano una situazione esplosiva, l’Alto Comando ebraico che ne vede invece chiaramente i rischi e le opportunità, la discesa nella violenza durante la guerra civile del 1947-8, trainata dal terrorismo dell’Irgun e del Lehi, la conquista ebraica delle città costiere e l’esodo della popolazione araba. La proclamazione di Israele, il 14 maggio 1948, sulle note di Hatikva, istituisce uno Stato che non ha ancora confini, perché questi andranno conquistati con la forza militare. Gli Stati arabi entrano in guerra il giorno seguente, sull’onda della domanda popolare e dell’opportunità. Pur sapendosi impreparati, confidano in una «guerra politica» risolta dall’intervento internazionale, ma sono sconfitti rovinosamente, con l’eccezione della Giordania di re ?Abdullah, che ottiene la Cisgiordania. Lo stile di Morris è, come sempre, ruvido fino alla sciatteria, altamente leggibile e senza pretese di distacco; negativo è il giudizio su tutti o quasi i protagonisti ufficiali e molti punti controversi sono regolati sommariamente nelle conclusioni. I massacri e le violenze dell’IDF contro i civili sono pienamente riconosciuti, ma giudicati minori che in altri conflitti; dei due eserciti, quello israeliano si dimostra il più forte e motivato, sebbene entrambi abbiano poi ostentato debolezza per esaltare la vittoria o giustificare la sconfitta; l’élite palestinese è divisa e irresponsabile, e questo segna il fato della popolazione civile; la comunità internazionale interviene soprattutto in soccorso degli Stati arabi in difficoltà, ostacolando la vittoria israeliana; l’esodo forzato di 700.000 palestinesi è frutto della tendenza «espulsionista» presente, ma non connaturata, nella dirigenza sionista, e diffusa anche fra i capi arabi; l’esodo dei palestinesi è seguito da quello degli ebrei orientali che, espulsi o in fuga dai paesi arabi, ripopolano Israele. Tipica dell’ultima fase dell’a. è la lettura in chiave jihadista del conflitto, che contraddice la decifrazione dei reali interessi in gioco nei capitoli precedenti. Nella situazione descritta, tutti gli attori sono costretti a seguire un cammino fatale, accecati dalla reciproca incomprensione. Alcuni capi sionisti, fra questi è Ben-Gurion, non si nascondono tuttavia le conseguenze dell’odio arabo e del torto inflitto alla popolazione palestinese, e queste sono riconosciute tali da mettere ancora oggi in forse – è l’oscura profezia che chiude il libro – l’esistenza stessa di Israele.

Bruna Soravia