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Carlo Rosselli, socialista e liberale. Bilancio critico di un grande italiano

Gaetano Pecora
Roma, Donzelli, 221 pp., € 19,00

Anno di pubblicazione: 2017

L’oggetto polemico di questo libro, scritto con uno stile talvolta immaginifico, fin troppo ricco di metafore, è abbastanza evidente: l’interpretazione «continuista» che del pensiero di Rosselli sottolinea la sostanziale coerenza interiore. Viceversa per Pecora (sulle orme di Salvemini, anche se un po’ troppo calcate) esiste in esso una netta svolta, da retrodatare almeno al 1932 (quando, nel fascicolo di gennaio dei «Quaderni di Giustizia e Libertà», Rosselli scrive lo Schema di programma, integrato dai Chiarimenti al programma), che lo porta gradualmente ad abbandonare l’iniziale liberalismo (intrecciato a quello che l’a. definisce il «socialismo del benessere», di matrice riformista, che «combatte la povertà e perciò rimane intrinseco al capitalismo», p. 51) per abbracciare una visione autogestionaria del socialismo che, neanche troppo velatamente, si «macchia» di criptocomunismo. Come capita a chi si innamora delle proprie tesi, a Pecora sembra sfuggire che il socialismo di Rosselli continua ad essere, sino alla fine dei suoi brevi giorni, un socialismo delle libertà (positive e negative, di e da, dalla miseria innanzitutto), volontarista e tutt’altro che determinista.
Pecora riconosce l’influenza, nell’evoluzione del pensiero di Rosselli, di quanto stava avvenendo: la «guerra che torna», l’avvento al potere di Hitler, l’aggressione all’Etiopia, la guerra civile spagnola (ma, anche qui, tace il fatto che Rosselli, in quel contesto, si sia schierato con il Poum e gli anarchici del suo amico Berneri, non con gli stalinisti, che, peraltro, lo accusarono sempre di essere un moderato al soldo della borghesia…). In definitiva, quel che non si riesce a comprendere (o ad accettare) è ciò che sottolineò il suo primo biografo (e compagno di lotta), Aldo Garosci: Carlo Rosselli fu un rivoluzionario, ma democratico, come testimonia il fatto che nella sua formazione Mazzini, Salvemini e Gobetti contarono più di Marx. Se non si parte da questo dato di fatto, anche il senso della distinzione rosselliana tra liberalismo come metodo (la democrazia) e come sistema (il liberismo), non sarà colto.
Men che meno si accetterà ciò che Rosselli scrive in Socialismo liberale, otto anni prima di essere assassinato: «Nella vita degli individui come dei popoli vi sono ore drammatiche in cui il cozzo di due princìpi e di due mondi morali reciprocamente escludentisi vieta ogni posizione di compromesso. La regola pratica del liberalismo, la regola del giusto mezzo, cade, potendosi essa applicare solo laddove regna un accordo sui fondamenti essenziali della vita sociale». Non esiste, dunque, un «Rosselli uno e due», il liberalriformista e il socialcomunista (anzi, il precursore del «gramsciazionismo», perché, in fondo, questo continua a criticarsi): esiste il socialista liberale il cui pensiero evolve col mutare dei tempi (e nessuno è in grado di affermare cosa ci avrebbe detto dopo il 1937…), dove, comunque, il primo termine funge da sostantivo (il fine) e il secondo da aggettivo (il metodo). Può non piacere (e non piaceva agli ortodossi, marxisti o liberali che fossero), ma tale è.

Giovanni Scirocco