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Fabio L. Grassi – Atatürk. Il fondatore della Turchia moderna, – 2008

Fabio L. Grassi
Roma, Salerno, 443 pp., euro 29,00

Anno di pubblicazione: 2008

Sulla scorta della storiografia turca e, in parte, occidentale l’a. traccia un’ampia biografia di questo interessante personaggio della storia del ’900, Kemal Atatürk (1881?-1938), che proseguendo con decisione l’opera iniziata nel 1908 dal Comitato Unione e Progresso (il Cup, ovvero i «giovani turchi»), di cui pure fece parte, traghettò l’Impero Ottomano nella Turchia moderna. Per l’oggetto della sua biografia l’a. manifesta apertamente una simpatia tale da scrivere «non nascondo il mio dispiacere nel dover […] registrare» le tesi di Kemal Atatürk sulla lingua proto turca, originaria di tutte le lingue, e da trovare «ragione di grave cruccio» nel modo in cui lo stesso Kemal Atatürk affrontò la questione curda (p. 342). La passione per il suo personaggio spinge l’a. a isolarlo, contrapporlo ed esaltarlo di fronte ai suoi contemporanei e ai suoi collaboratori, con rischio per la comprensione storica dell’uomo e del suo tempo. Emerge quindi, ad esempio, che Kemal già nel 1906 immaginasse uno Stato turco anatolico (pp. 52-53 e 64) a differenza del Cup, che si batteva per la conservazione dell’Impero: in realtà lo stesso Kemal in Libia, sui Dardanelli, in Medio Oriente condivise nei fatti il programma unionista. L’a. stesso ricorda come già il Cup avesse individuato nella penisola anatolica e nell’elemento turco il nucleo attorno cui incentrare lo Stato e la società da modernizzare, il generale Kemal Atatürk fu rafforzato di necessità in questa convinzione, dopo che l’Impero si era ridotto a poco più della penisola anatolica e queste stessa era minacciata di spartizione. Da qui prima i massacri armeni del Cup, da cui mai Kemal si dissociò («Quanto Kemal ne abbia saputo e che cosa ne pensasse, non è dato sapere», scrive l’a. a p. 124), poi la disperata e vittoriosa reazione militare dell’esercito turco guidato da Kemal e da altri eredi del Cup, che impedì la costituzione di uno Stato armeno e buttò a mare non solo l’esercito greco invasore, ma anche centinaia di migliaia di greci insediati in Anatolia da oltre 2000 anni, infine la messa a ferro e fuoco a più riprese della regione curda. L’a. negli ultimi due capitoli ricostruisce come Kemal, ottenuta a tale prezzo l’omogeneizzazione etno-culturale dell’Anatolia, si sia rivolto alla modernizzazione del paese: costituzione della Repubblica, separazione tra istituzioni religiose e Stato, occidentalizzazione della legislazione e dei costumi (dall’emancipazione femminile all’introduzione dei cognomi e alla foggia dei cappelli), sostegno alla ricerca scientifica, sviluppo di un’economia non soggetta al volere esterno. Il nazionalismo razzista (l’a. nega l’antisemitismo del kemalismo, che pure ci fu) e il regime dittatoriale dovevano servire alla modernizzazione ma questa, come rileva l’a., trovò un potente freno nelle forze sociali conservatrici di cui Kemal aveva cercato e ottenuto l’appoggio nella guerra per respingere il Trattato di Sèvres (p. 172). Ricca di informazioni sui conflitti politici interni allo schieramento nazionalista e sui rapporti tra il movimento kemalista e le grandi potenze, la biografia è fastidiosamente appesantita da giudizi moralistici. Lascia a desiderare l’indice onomastico.

Armando Pitassio