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Frédéric Rousseau – Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia – 2011

Frédéric Rousseau
Roma-Bari, Laterza, 207 pp., Euro 18,00 (ed. or. Paris, 2009)

Anno di pubblicazione: 2011

L’immagine del bambino con lo sguardo terrorizzato e le braccia alzate mentre viene arrestato a Varsavia nel 1943 è diventata nel corso degli anni la «sintesi iconica, storica e memoriale» della Shoah (p. 75). Il volume di Frédéric Rousseau, docente di Storia contemporanea all’Università di Montpellier III, ricostruisce la storia di questa foto e della sua circolazione postbellica.L’immagine era in origine collocata in un album, riprodotto integralmente ad apertura di libro, facente parte del cosiddetto rapporto Stroop (dal nome del generale delle SS a capo dell’operazione di smantellamento del ghetto di Varsavia in rivolta). La foto del bambino era quindi funzionale al discorso nazista, che l’a. analizza in maniera efficace nel primo dei tre capitoli. Dopo una fugace comparsa nell’ambito del Processo di Norimberga, questa ebbe una crescente diffusione tra gli anni ’60 e ’90 (quando dal paradigma resistenziale si passò a quello fondato sulla Shoah, in altre parole dall’enfasi sugli eroi si passò a quella sulle vittime), fino alla proliferazione come icona e simbolo della vittimizzazione dei bambini, in particolare nell’ambito del conflitto israelo-palestinese. Usata in maniera così decontestualizzata, la foto perderebbe il suo valore di testimonianza e, per la sua carica emotiva, rappresenterebbe un ostacolo al pensiero critico e razionale, e quindi al corretto sviluppo della dialettica democratica.Il bambino di Varsavia è un interessante case studydel processo di costruzione della memoria pubblica della Shoah, ma non manca di aspetti problematici. In primo luogo, l’analisiattinge a pienemani al volume di Richard Raskin, A Child at Gunpoint: A Case Study in the Life of a Photo (Aarhus University Press, 2004). Certo, il testo di Rousseau presta molta più attenzione alla circolazione della fotografia in Francia. E forse il suo eccessivo franco-centrismo rappresenta uno dei suoi punti deboli. Affermare che il silenzio sul ritorno dei deportati razziali (ma fu proprio silenzio?) e l’opposizione tra resistenti attivi e deportati passivi furono particolarmente forti in Francia significa trascurare paesi come l’Italia e soprattutto Israele. A onore del vero l’a. aggiunge che la scelta da parte delle comunità ebraiche europee nel dopoguerra di privilegiare la commemorazione dell’eroismo della rivolta del ghetto di Varsavia rispetto ad altre forme di risposta allo sterminio fu anche «largamente dipendente, per diversi decenni, dal contesto israeliano» (p. 82), ma allora non si capisce perché mai l’opposizione attivi-passivi debba essere stata una peculiarità francese. E se l’immagine del bambino con le mani alzate è diventata un’icona universale dell’infanzia violata, ormai sganciata dal suo referente storico, chi e a nome di quale comunità può criticarne l’uso? E perché questo introdurrebbe «uno squilibrio incomprensibile e inaccettabile nell’atteggiamento nei confronti della Shoah» (p. 142)?Nonostante questi eccessi di zelo morale e normativo, il libro (reso nella traduzione scorrevole di Fabrizio Grillenzoni) è un’interessante aggiunta al corpus di lavori sulla memoria della Shoah disponibili in italiano.

Emiliano Perra