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Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento 1896-1977

Massimo Asta
Roma, Carocci, 327 pp., € 33,00

Anno di pubblicazione: 2018

All’uscita, nell’ultimo quindicennio, di importanti biografie sui maggiori esponenti
del Pci – da Amendola (Cerchia) a Berlinguer (Barbagallo), da Grieco (Lovecchio) a Longo
(Höbel), da Secchia (Albeltaro) allo stesso Togliatti (Fiocco) – si aggiunge ora il volume
di Massimo Asta su un dirigente profondamente legato all’universo contadino siciliano e
alle battaglie antimafia: Girolamo Li Causi.
Il percorso esistenziale e politico del leader comunista siciliano viene qui ripercorso
in maniera compiuta, attingendo alla ricostruzione autobiografica pubblicata da Li Causi
nel 1974 – dal titolo Il lungo cammino, il cui racconto si fermava al 1944 – opportunamente
integrata da una copiosa documentazione archivistica, pubblica e privata, raccolta
tra l’Italia e Mosca. La parabola del dirigente comunista, la cui grande popolarità è sottolineata
dai lusinghieri consensi ottenuti – secondo solo a Togliatti – in diverse tornate
elettorali negli anni ’50, si intreccia e finisce per incarnare la storia stessa del movimento
operaio nel ’900, con i suoi slanci ideali, le lotte, le rotture ideologiche e le divisioni.
Formatosi nel clima dell’antigiolittismo meridionale, dalle iniziali posizioni radicali
approdava al socialismo a ridosso del primo conflitto mondiale, dopo il trasferimento a
Venezia per completare gli studi in Economia politica presso la Scuola superiore di Commercio
Ca’ Foscari. Legato a Serrati, dal socialismo massimalista del primo dopoguerra
sarebbe transitato nel 1924 con la frazione terzina nel Pcd’I, per forgiarsi durante gli anni
del fascismo nella lunga e dolorosa esperienza della prigionia e del confino. Protagonista
della lotta resistenziale al Nord, nel 1944 è inviato a riorganizzare le file del Partito in
Sicilia con l’intento di favorire l’applicazione della nuova linea togliattiana nell’Isola, e
messo subito a dura prova dall’attentato di Villalba, in cui rimase ferito, e più tardi, nel
1947, dalla strage di Portella della Ginestra. Più volte deputato e senatore, il suo impegno
alla direzione del Pci siciliano si caratterizzò per un forte sostegno all’organizzazione del
Partito e alle lotte sindacali e contadine, per la battaglia antimonopolistica, la difesa e valorizzazione
dell’autonomia siciliana, sino a divenire, per la sua opera di analisi e denuncia
del fenomeno, un’autentica icona antimafia.
Accanto alla ricostruzione della vita e del pensiero del dirigente – in cui all’immagine
del tribuno si affianca la figura dello studioso capace di contribuire, in virtù delle sue
riconosciute competenze nel settore, all’elaborazione della politica economica del Pci – è
interessante valutare il rapporto dialettico tra l’azione politica dispiegata in Sicilia e la
strategia complessiva del Partito, dal quale emerge tutta la difficoltà a tradurre le linee
programmatiche generali nella specificità del contesto isolano. Da questa aporia, che investiva
la questione delle alleanze e dell’adozione di un’impostazione più aperta e interclassista,
si dipanò lo scontro con Amendola e con quei nuovi quadri locali formatisi nella fase
di sviluppo del «partito nuovo», da Pancrazio De Pasquale allo stesso Pio La Torre.

Antonio Baglio