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Hayden White – Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione – 2006

Hayden White
a cura di Edoardo Tortarolo, Roma, Carocci, 224 pp., euro 18,50

Anno di pubblicazione: 2006

Per White gli storici sono in fondo equiparabili all’attempato erudito vittoriano Mr. Casaubon di Middlemarch che vaga nel passato cercando di ricostruire idealmente le sue rovine. Non a caso l’immagine impiegata da White per descrivere la vana fatica degli storici, nel suo recente Forme di storia, è proprio quella dell’infaticabile opera di restauro delle rovine e dei relitti del passato, al fine di ricomporne il disegno originario. È una missione votata al fallimento secondo White perché, come sa chi ha studiato le tecniche di restauro dei manufatti artistici o architettonici, ogni ricostruzione poggia in maniera cospicua su una costruzione originaria ma al contempo richiede una considerevole decostruzione dell’originale. Tra passato e presente si situa, infatti, un’incolmabile discontinuità. Per istituire un collegamento tra il tempo passato e quello presente lo storico è costretto a ricorrere a un espediente-feticcio, il racconto, una messa in intreccio di personaggi, cose, date, frammenti che di per sé non sarebbero in grado di restituirci altro che una cronaca sconnessa del passato. Solo la messa in intreccio dei segmenti avulsi del tempo in rovina consente una qualche forma di rappresentazione. Ma la rappresentazione (come tutte le rappresentazioni) è fittizia, infondata sul piano scientifico, perché dotare queste figure di intreccio comporta che la traiettoria della loro parabola segua inevitabilmente il percorso di un compimento, di una sorte o di un destino. E in che forma? Consideriamo da vicino la «frase» storica. L’effetto di significato del resoconto narrativo di una sequenza storica è raggiunto, secondo White, mettendo in relazione gli eventi secondo l’ordine del loro accadimento (drammatizzandone alcuni e trascurandone altri), interpretandoli sempre però come indizi di ciò che sarà (o meglio che si sa già che è stato). Fino a configurare lo storico, in fondo, come un «profeta» retrospettivo. È indubbio che la critica narratologica al metodo storico ha prodotto una sorta di storiografia «riflessiva» (in linea, vien da pensare, con la seconda modernità «riflessiva» descritta da U. Beck e A. Giddens) soprattutto con la svolta del linguistic turn. Una concezione testualista (così la definisce White) che si interroga sul rapporto tra linguaggio e realtà. Qualsiasi cosa si intenda per realtà essa è effettivamente sempre costituita da una rappresentazione ma è proprio questa differenza che rende possibile la comparazione critica fra le varie rappresentazioni, in questo caso del passato. Si traccia, per questa via, un percorso di autodecodificazione delle diverse rappresentazioni del discorso storico in cui però è opportuno riconoscere, a mio avviso, un netto discrimine tra chi si propone un’ermeneutica del lavoro storico e presuppone che la materia dello scavo storiografico non sia più ma sia comunque stata (per ricorrere alle immagini di Paul Ricoeur) e quelli per cui il passato coincide con la sua mera narrazione, sia cioè un puro atto linguistico. Rischiando una contiguità davvero ravvicinata con quei teorici poststrutturalisti il cui Manifesto Why History? (1999) recita baldanzosamente, nelle parole di Jenkins, di vivere nel tempo ma senza storia. Un motto davvero sinistro.

Antonella Tarpino