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I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda

Stefano Pivato
Bologna, il Mulino, 184 pp., € 14,00

Anno di pubblicazione: 2013

Questo agile volume nasce dalla curiosità di risalire alle origini di un’accusa che, in forme reali o metaforiche, ha attraversato il linguaggio politico del ’900 italiano e si è radicata nell’immaginario collettivo fino a diventare quasi un modo di dire comune. L’a., che già in diverse occasioni ha lavorato sul materiale propagandistico e comunicativo del conflitto dialettico tra comunismo e anticomunismo e sulle sue origini storiche, prende spunto dalla nota suggestione blochiana sul ruolo delle «false notizie» nella rappresentazione di convinzioni e sentimenti profondi e diffusi e procede a destrutturare l’idea dei comunisti «mangiatori di bambini» nei suoi possibili aspetti costitutivi, fino a individuare il «brodo di coltura favorevole» (p. 165) che ha permesso a una «leggenda contemporanea» di sopravvivere ben al di là di quanto la sua natura incredibile avrebbe lasciato sospettare.
Le prime opache avvisaglie di un legame tra esperienza comunista e pratiche di cannibalismo si ebbero di fronte alle tragedie della guerra civile e delle carestie di cui la storia sovietica fu costellata dalla Rivoluzione alla seconda guerra mondiale, eventi guardati dall’Europa occidentale attraverso la lente almeno in parte deformante delle scarne informazioni di prima mano provenienti da quelle terre lontane e delle narrazioni di profughi ed esuli politici antibolscevichi.
A questa prima immagine, così tremenda per le coscienze della moderna Europa con la sua combinazione di elementi tradizionalmente angosciosi e perturbanti come la fame e la morte, andò rapidamente a giustapporsi la questione del sempre più diretto coinvolgimento «dell’infanzia […] nel processo di arruolamento che caratterizza i conflitti del secolo scorso» (p. 11). Le false notizie sulla deportazione di bambini nell’Urss dal Mezzogiorno d’Italia diffuse dalla propaganda di Salò negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale mostrarono la loro straordinaria presa sull’opinione pubblica man mano che il comunismo cessava di essere soltanto una minaccia lontana all’ordine «naturale» e cristiano della società, e si trasformava in una presenza reale all’interno della società italiana, capace di competere con le tradizionali agenzie di formazione dei fanciulli per ciò che atteneva alla morale condivisa e al comportamento nella vita associata. Negli anni di maggior tensione della guerra fredda, le accuse rivolte a più riprese negli ambienti cattolici all’Associazione pionieri d’Italia a guida comunista di formare i bambini che le erano affidati alla derisione della religione, agli atteggiamenti più irrispettosi verso l’autorità, al turpiloquio, quando non a una precoce iniziazione alle pratiche sessuali, cercarono di tracciare attraverso il ricorso a paure non meno diffuse e meno urgenti una barriera di diffidenza attorno a un comunismo che altrimenti avrebbe corso il rischio di farsi, con l’esperienza diretta, meno «disumano».

Andrea Mariuzzo