Anno di pubblicazione: 2016
Ogni genocidio prevede un’opera di indottrinamento della popolazione e di diffusione
di sentimenti razzisti che giustificheranno i provvedimenti di discriminazione e limiteranno
al minimo gli atteggiamenti di resistenza e collaborazione in favore delle vittime.
È difficile sottrarsi alla pervasività della propaganda, e ancor più rischiare la vita operando
gesti concreti di disobbedienza. Metz Yeghern non ha fatto eccezione. Spiccano, quindi, le
scelte di chi, in modi diversi, ha solidarizzato, aiutato, protetto gli armeni perseguitati e
votati all’eliminazione. Pietro Kuciukian prosegue il suo viaggio tra i «giusti» di Armenia,
cominciato nel 2000 con la pubblicazione di Voci nel deserto, dedicato ai «testimoni di
verità» non turchi. L’a., medico chirurgo, è il presidente del Comitato internazionale dei
Giusti per gli armeni, fondato nel 1996 nell’ambito del Museo del Genocidio di Erevan,
e collabora al progetto «Gariwo, la foresta dei Giusti» di Milano.
Stavolta Kuciukian passa al vaglio le vicende di circa centossessanta sudditi dell’Impero
ottomano, e di una ventina di gruppi, protagonisti di azioni volte a cambiare il
destino degli armeni mentre il disegno di soppressione si dispiegava, nel 1915-1916.
Individua tredici categorie di «disobbedienti»: i funzionari dello Stato ottomano che non
collaborarono, quanti protessero o diedero rifugio e ospitalità agli armeni a rischio della
vita, i protagonisti di atti pubblici di denuncia, gli imprenditori che offrirono lavoro agli
armeni, e infine le tre categorie più ambigue, quelle dei «salvataggi in cambio di conversioni
e abiure», dei «salvataggi di minori islamizzati, riscattati al mercato degli schiavi», dei
«salvatori per interesse personale o per denaro» (pp. 215-216).
Troviamo questa lista di categorie, corredata di nomi e cognomi e brevi spiegazioni,
nell’Appendice del volume (pp. 211-216), che è in realtà un racconto di viaggio. L’a.
ha infatti percorso la Cilicia e la Cappadocia alla ricerca di tracce, di conferme, di echi
delle storie di disobbedienza. Nel secondo capitolo, ad esempio, l’a. giunge a Kutahya,
capoluogo della provincia governata nel 1915 da Faik Ali Ozansoy: praticamente l’unico
caso di vali che si rifiutò di eseguire l’ordine di deportazione e non fu rimosso e processato,
nonostante una convocazione a Costantinopoli giuntagli da Talaat Pascia, ministro
dell’Interno, uno dei triumviri. Egli aveva, infatti, portato sulle sue posizioni il notabilato
musulmano della provincia, a cominciare dalle due famiglie più influenti. Presto a Kutahya
si rifugiarono molti armeni della costa, e alla fine le vite risparmiate sarebbero state
più di tremila.
Quella di Faik Ali, come molte altre presenti nel libro, è una vicenda che andrà
approfondita e studiata: l’a. infatti ha preferito non scendere in profondità ma passare
in rassegna, utilizzando fonti secondarie, l’intero spettro della resistenza al genocidio. In
questo risiede il motivo di interesse del volume, che per la prima volta raccoglie in un
quadro unitario, seppure privo di molti dettagli, molteplici itinerari che mostrano come
sia possibile opporsi al dilagare della violenza genocidaria.