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I manifesti della Grande Guerra. Immagini e persuasione all’origine della comunicazione contemporanea

Pier Paolo Pedrini
Roma, Carocci, 200 pp., € 29,00

Anno di pubblicazione: 2017

La tesi del libro è esplicitamente formulata: provare che «i grandi temi che [oggi]
guidano i consumatori […] e i cittadini nelle loro scelte politiche ribadiscono la validità
dei principi sviluppati dai propagandisti per vendere la Grande Guerra» (p. 11). L’a.,
studioso di tecniche della persuasione e psicologia della comunicazione, passa in rassegna
più di 100 manifesti prodotti nel Regno Unito e negli Stati Uniti negli anni di guerra, alla
ricerca delle tecniche grafiche e retoriche che possono essere riconosciute nelle pubblicità
odierne. Il libro è diviso in dieci brevi capitoli, cui corrispondono altrettanti elementi della
persuasione propagandistica-pubblicitaria, illustrati per tramite dell’analisi dei poster
bellici.
Il libro è problematico dal punto di vista degli storici, poiché tra le sue premesse vi è
un fraintendimento di fondo. Scrive l’a.: «non è nostra intenzione approfondire gli aspetti
storici e sociali, ma intendiamo piuttosto cercare di osservare e quantificare l’impatto della
propaganda sull’atteggiamento collettivo» (p. 10). È ovvio per ogni storico che l’impatto
della propaganda sull’atteggiamento collettivo è un aspetto storico, sociale e culturale che
la disciplina ha affrontato più volte e con strumenti sofisticati.
Il risultato è un libro estremamente interessante come saggio di marketing e di psicologia
della comunicazione, che può essere utile agli storici come un’antologia critica e
riccamente illustrata (175 figure a colori) dei manifesti anglosassoni. Ma quando l’a. si
avventura in campi tradizionalmente storiografici le lacune sono evidenti. Manca il confronto
con altre forme di propaganda, tra diverse situazioni storiche nazionali, tra diverse
fasi del conflitto. Come si sia arrivati da allora a oggi, la verifica che le tecniche in questione
non fossero già state usate prima in altri contesti o l’evidenziazione delle differenze tra
il presente e il passato non sono tra gli interessi del saggio.
Sarebbe del tutto legittimo se il libro si presentasse solo come uno studio dei manifesti
della Grande guerra per parlare del presente. Ma la tesi del saggio spinge inevitabilmente
l’a. verso conclusioni storiografiche spesso scarsamente argomentate, anche
a causa della completa mancanza di note, e poco convincenti. Cito solo alcuni esempi.
L’a. usa la rappresentazione di una «Miss America» in un manifesto per provare che l’uso
delle celebrità per sostenere un messaggio pubblicitario nasce proprio in questo periodo
(p. 49). In realtà la Miss America in questione non è una persona in carne e ossa, ma un
simbolo di tutte le donne d’America che si mettono al servizio della nazione. In conclusione
al volume si citano i più di quattro milioni di soldati dell’esercito statunitense come
prova del successo dei manifesti. Ma gli Stati Uniti imposero la coscrizione fin da poche
settimane dopo l’entrata in guerra, proprio perché i volontari erano troppo pochi. Il legame
tra numero di soldati e successo delle tecniche pubblicitarie dei poster è perlomeno
ambiguo e richiede, per essere provato, l’escursione al di fuori dell’universo comunicativo
dei manifesti.

Federico Mazzini