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I vinti di Vittorio Veneto

Mario Isnenghi, Paolo Pozzato (a cura di)
Bologna, il Mulino, 385 pp., € 26,00

Anno di pubblicazione: 2018

Il volume raccoglie scritti diversi (storie reggimentali, rapporti, autobiografie, ecc.), che raccontano la sconfitta asburgica nella Grande guerra vista con gli occhi di chi quella sconfitta la patì: militari di vario grado, prigionieri, ecc. Fra le tante pubblicazioni sulla prima guerra mondiale, frutto anche dei recenti anniversari, quella di Isnenghi e Pozzato è una proposta intrigante e per certi versi originale. Lo è perché – come sottolineano i curatori – «mette a disposizione un panorama ragionato di testi, tutti significativi e qual- che volta rari, dimenticati o inediti» (p. 10). Certo, si tratta di un «“carotaggio”» (p. 11) senza pretese di esaustività. Tuttavia è una panoramica che ha almeno due meriti. Per un verso, consente al lettore italiano di dare spessore a un nemico che, complice la barriera linguistica, spesso resta appiattito dall’unilateralità interpretativa tipica di tanta storiogra- fia nazionale sulla guerra. Per un altro verso, offre uno spaccato su «una memoria colta nell’immediatezza del suo farsi coevo agli avvenimenti o nelle stratificazioni rielaborative del dopo» (p. 11), aggiungendo un tassello al composito mosaico degli studi bottom-up sui conflitti e le loro reminiscenze. Nelle parole di questi uomini si può così toccare con mano la delusione, l’incredulità, l’orgoglio, il cameratismo, la rabbia, le tensioni e in ge- nerale l’atmosfera che caratterizzano il mondo asburgico durante e dopo il conflitto: tutti atteggiamenti tematizzati e sviscerati già nella lunga Introduzione di Isnenghi.
Eppure, non si tratta solo di guardare dal basso alla guerra e alle sue conseguenze, come già tante volte è stato fatto attraverso la scrittura popolare e la memorialistica. Que- sta sorta di autobiografia collettiva è interessante anche perché mostra l’idea che ufficiali e soldati asburgici avevano dei loro nemici, confermando per esempio diffusione e radi- camento di quell’antimito dell’italiano imbelle che contribuisce al fraintendimento dei fatti comune ai tanti non disposti a credere a una simile sconfitta. Più ancora, lo è perché diventa lo specchio delle dilanianti frizioni interne alla Duplice monarchia: quelle su base nazionale fra i tedeschi (così molti austriaci si autodefiniscono e provano a ripartire dopo il conflitto) e i popoli che essi descrivono come traditori (gli ungheresi) o indisciplinati saccheggiatori (gli slavi); quelle su base socio-politica, che trovano espressione nell’indi- stinta condanna di un universo socialista in realtà assai variegato; infine quelle razziali che, seppur sfumate e perlopiù intrecciate alle prime due, fanno intuire il peso dell’antisemiti- smo nella costruzione di una spiegazione accettabile e autoassolutoria della débâcle.
Insomma, per molti di questi testimoni scrivere della Grande guerra è scrivere dell’inspiegabile e inaccettabile fine di un mondo. Per chi li legge, è invece anche il modo di provare a penetrarne le parimenti stereotipate immagini d’inarrestabile declino o di fulgida potenza multinazionale, e quindi di capire come e perché quel mondo sia finito.

Marco Rovinello