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Ideologia e Realpolitik. La politica estera sovietica e l’Istituto di economia e politica mondiale (1924-48)

Andrea Borelli
Canterano, Aracne, 2017, 246 pp., € 14,00

Anno di pubblicazione: 2018

Il titolo del libro definisce le direttrici parallele lungo le quali si mosse la politica
estera sovietica fra le due guerre mondiali, anni nei quali le messianiche aspettative di una
rivoluzione mondiale e la spregiudicata ricerca di accordi con gli Stati capitalisti si incrociarono
in occasione di singoli trattati e iniziative, per poi combinarsi in una strategia coerente
solo nel secondo dopoguerra, quando l’Urss divenne una superpotenza. Le ragioni
di questa condizione sono molteplici, e riconducono tutte all’incapacità di formare una
realistica immagine del mondo esterno.
Fondato nel 1924 nell’ambito di un generale impegno a «provvedere analisi utili»
assicurando «la fedeltà al quadro ideologico del confuso lascito leniniano» in materia
(p. 36), l’Istituto di economia e politica mondiale non fu mai all’altezza del compito,
e si limitò a barcamenarsi, sotto l’abile guida del suo direttore (a partire dal 1927) Jenò
Varga, assumendo posizioni «moderate», ispirate dalla consapevolezza che qualsiasi scelta
di politica estera era destinata a essere abbandonata in breve tempo, e quindi sarebbe
stato pericoloso sostenerla senza riserve. Per definizione, i collaboratori di un Istituto che
si occupava di politica mondiale non potevano che essere contrari alle teorie del «social
fascismo» emerse alla fine degli anni ’20. Ma quando la condanna di queste posizioni
assunse proporzioni minacciose, Varga fu pronto a parare il colpo con «attacchi alla socialdemocrazia
europea e giudizi catastrofici sul capitalismo», che rendevano «impossibile
stabilire solide relazioni fra le potenze occidentali e l’Urss» (p. 123). Presto la politica di
«sicurezza collettiva» rese inattuali questi giudizi, e Varga lasciò ai suoi collaboratori il
compito di approvarla, nella certezza che essa fosse priva di prospettive. Prima della firma
del Patto Ribbentrop-Molotov, fu attaccato per «giudizi troppo lusinghieri nei confronti
dei nazisti» (p. 173); dopo, giudicò «impossibile l’entrata in guerra di Washington al
fianco di Londra» (p. 177).
Nel corso della guerra emerse il Varga più noto nei paesi occidentali, pronto a legittimare
l’alleanza antifascista con argomentazioni storico-ideologiche: nelle democrazie
occidentali lo Stato si era trasformato da «strumento di mantenimento del potere a organo
di direzione economica» (p. 183). Per l’ennesima ironia della storia, il Piano Marshall
confermò l’intuizione, ma decretò la fine dell’Istituto, che fu sciolto nel 1948. Non vi erano
motivi per mantenere una struttura con 200 collaboratori, alla quale da sempre erano
stati negati gli strumenti per la conoscenza del mondo contemporaneo, e che quindi, per
timore e incapacità, non era mai stata in grado di «proporre linee di politica estera diverse
da quelle seguite dalla direzione staliniana» (p. 20). Secondaria nel quadro politico del
tardo stalinismo, la decisione preannuncia la sconfitta nella guerra fredda culturale dei decenni
successivi, alla quale inutilmente i successori di Stalin tentarono di porre rimedio.

Fabio Bettanin