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Il caso Roatta. Londra ed i crimini di guerra italiani: dalle accuse all’impunità (1943-’48)

Laura Bordoni
Roma, Odradek, 164 pp., € 16,00

Anno di pubblicazione: 2017

Le ricerche sull’epurazione e sui crimini di guerra italiani durante la seconda guerra
mondiale sono da tempo al centro dell’interesse degli storici. A lungo, come è noto, una
delle principali controversie ha riguardato la tesi della cosiddetta «epurazione mancata», a
sua volta intrecciata alle interpretazioni di Claudio Pavone sulla «continuità dello Stato».
La tesi dell’epurazione mancata o fallita non si è rivelata esente da critiche e stroncature.
Hans Woller, ad esempio, ha in parte ribaltato il giudizio negativo sull’epurazione che
si era via via sedimentato nel corso dei decenni, sostenendo sulla base di un’ampia documentazione
italiana e alleata che furono centinaia di migliaia gli italiani che persero il
posto di lavoro per motivi politici e migliaia quelli che conobbero il carcere.
Il volume di Laura Bordoni, tratto dalla sua tesi magistrale, inserisce il caso Roatta
soprattutto nel contesto della costruzione del mito del bravo italiano, più che nel dibattito
sull’epurazione. Il focus d’indagine si basa sull’atteggiamento del governo inglese nei confronti
dei criminali di guerra italiani in generale e di Roatta in particolare, dalla caduta del
regime fascista nel luglio 1943 alla stabilizzazione politica italiana dopo le elezioni del 18
aprile 1948. Il punto forte del volume è senz’altro rappresentato dal felice e abbondante
utilizzo della documentazione inglese: le fonti analizzate dall’a. sono infatti quelle del Foreign
Office a Londra. Come è noto, il generale Mario Roatta era stato comandante della
II armata italiana in Croazia e fu l’estensore, come ricorda Davide Conti nella Prefazione,
della «tristemente nota “circolare 3C” che ordinava repressioni contro civili e partigiani
jugoslavi, deportazioni e internamenti, fucilazioni e rappresaglie» (p. 7); era inoltre fortemente
sospettato di aver svolto un ruolo significativo nell’assassinio dei fratelli Rosselli e
nell’assassinio del re jugoslavo Alessandro.
Accusato in Italia e all’estero, soprattutto dal governo di Tito, di crimini di guerra,
nel marzo 1945, Roatta fuggì da Roma con la complicità dei vertici militari italiani e
anglo-americani. Come ricostruisce l’a., il generale era stato in vario modo coinvolto
nelle operazioni che portarono all’armistizio dell’Italia con gli alleati, le cui clausole nella
primavera del 1945 non erano ancora state rese pubbliche. Il processo avrebbe dunque
rischiato di coinvolgere non solo i vertici istituzionali dello Stato italiano, il re e Badoglio,
ma anche di mettere seriamente in «imbarazzo» gli stessi alleati anglo-americani. Secondo
l’a., il generale Roatta rappresenta dunque «il simbolo della vicenda dei crimini di guerra
italiani» (p. 19).
Resta il dubbio sulla possibilità di leggere il caso Roatta come paradigmatico di tutta
la storia dei processi contro i crimini di guerra italiani, ma il volume porta alla conoscenza
del lettore italiano alcune fonti importanti che serviranno per ricostruzioni future e più
ampie sulla defascistizzazione dello Stato.

Filippo Triola