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Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf

Sven Felix Kellerhoff
Milano, Rizzoli, 2016, 356 pp., € 22,00 (ed. or. Stuttgart, Klett-Cotta, 2015, traduzione di Roberta Zuppet)

Anno di pubblicazione: 2016

La pubblicazione dell’edizione critica tedesca del Mein Kampf è stata preceduta e accompagnata da alcuni lavori che hanno tentato di ricostruire la genesi e la storia del «libro maledetto». Fra questi bisogna segnalare il saggio di Sven Felix Kellerhoff. L’a. non è uno storico accademico, ma un giornalista con una formazione storica, che da alcuni anni occupa il ruolo di responsabile della pagina culturale di «Welt.de». L’a. non è nuovo a lavori dedicati alla storia tedesca. Nel 2002 pubblicò presso Links Verlag un lavoro sulle «leggende tedesche», fra cui la più nota (quantomeno del XX secolo) è indubbiamente il mito della pugnalata alla schiena (Dolchstosslegende).
Partiamo subito da una constatazione di carattere generale. L’a. si professa un liberale attento allo studio dei miti e, soprattutto, al loro «disinnesco» pubblico. Così è stato per la «pugnalata alla schiena» (un mito fondamentale per spiegare il successo del nazismo). Così è anche per il Mein Kampf. L’aspetto forse più «strano» del testo hitleriano è che, pur essendo stato venduto o regalato in enormi quantità sino al 1944, è stato ritenuto di scarsa rilevanza per capire il nazismo e, più in generale, il «mistero» del suo successo. Soffermandosi sul contenuto piuttosto che sulla forma, i lettori critici dell’autobiografia hitleriana si sono limitati a rendicontare le espressioni più smaccatamente discriminatorie utilizzate da Hitler per definire i suoi avversari (gli ebrei e, a cascata, i marxisti, i socialisti, i liberaldemocratici, ecc.), ignorando l’efficacia semiotica del testo.
L’a. mantiene un rigido impianto cronologico. Parte dalla genesi del testo, dai suoi contenuti. Si sposta poi sulle fonti. Analizza la pubblicazione, la critica e le revisioni. Passa poi in rassegna il problema delle vendite e dei profitti. Cerca di individuare il lettore tedesco e straniero. Conclude la sua disamina con la controversia dettata dalla pubblicazione dell’edizione critica del Mein Kampf (dapprima sostenuto dal governo del Land bavarese, che poi ha ritrattato il suo endorsement morale e finanziario) e con gli «effetti» possibili sullo scenario politico e culturale europeo (e non solo).
Studiare un testo come il Mein Kampf non significa limitarsi alla sua sintassi (come tendono a fare gli storici), ma significa anche soffermarsi sul rapporto tra l’espressione e la realtà extralinguistica (cioè la sua semantica) e sull’uso pubblico del testo nel suo contesto specifico (quindi la sua pragmatica). L’a. ha tentato di tener conto di tutti e tre gli aspetti semiotici, rendendosi ben conto che un testo come il Mein Kampf, che circolò liberamente in milioni di copie nella Germania nazista, rappresenta una spia indiziaria non solo di una visione ideologica della politica, ma anche di un certo modo di autorappresentarsi. Se la nazione forse più colta del mondo finì tra le braccia del nazismo, è lecito analizzare non solo il macrocontesto storico-economico o gli «errori» dell’establishment, ma anche e soprattutto la formazione di credenze e stereotipi attraverso la «mente» di Adolf Hitler.

Vincenzo Pinto