Anno di pubblicazione: 2009
Un ottimo libro che tratta della lunga guerra in Asia orientale e nel Pacifico ma anche della storia complessiva del Giappone, nel ‘900 e nei secoli precedenti. Di particolare interesse la ricostruzione dell’affermazione delle ideologie ultra-nazionaliste nella prima metà del XIX secolo, anche se l’a. legge le origini dell’egemonia militarista sulla vita culturale e politica nipponica anche, e soprattutto, nel carattere delle istituzioni emerse dalla «Restaurazione Meiji», la rivoluzione che nel 1868 pose fine, dopo oltre 250 anni, allo shogunato Tokugawa. Quella rivoluzione «inventò» una tradizione, costruendo l’imperatore come mito fondatore di un’epoca del tutto nuova, nella quale sin dall’inizio i militari si videro attribuire un potere quasi illimitato. Nonostante il regime rappresentativo, la nuova Costituzione stabiliva infatti un legame diretto tra il sovrano e gli Stati maggiori delle forze armate, ai quali era assicurata una libertà di azione quasi totale: spesso l’élite politica di governo era tenuta all’oscuro di importanti decisioni prese dai militari in modo unilaterale. L’influenza incontrollata dei militari plasmò progressivamente una società caratterizzata, durante la guerra, da un «consenso quasi universale» nei confronti dell’élite militarista, molto maggiore di quello di cui potevano godere i vertici nazisti in Germania, ma ottenuto con un ridotto uso della forza (anche molti comunisti sostennero, pentiti, il regime; lo stesso fece la minoranza cristiana).L’a. esamina in dettaglio il comportamento atroce delle armate imperiali in Cina, con centinaia di migliaia di soldati massacrati anche dopo la resa, per ordine degli Stati maggiori (ma le atrocità furono spesso anche iniziativa autonoma della truppa). E parla della guerra biologica condotta in Cina grazie agli esperimenti criminali condotti dall’Unità 731 su cavie umane, nessuna delle quali sopravvisse. Mostra poi come sotto l’ideologia anti occidentale della «sfera di co-prosperità» i paesi asiatici conquistati fossero in realtà sfruttati all’estremo. E narra del trattamento brutale riservato ai prigionieri di guerra, ai lavoratori asiatici ridotti in schiavitù, alle schiave sessuali. Ma le atrocità perpetrate dall’esercito imperiale si estesero poi anche ai soldati giapponesi e alla stessa popolazione civile, nell’imminenza della disfatta.Margolin analizza infine come cambino nel tempo la memoria e la storia delle atrocità in funzione del mutare della situazione politica nazionale e internazionale, con la Cina che aumenta in modo insostenibile il numero dei massacrati a Nanchino, ma ignora centinaia di altre stragi commesse dai giapponesi sul suo territorio, mentre in Giappone si oscilla tra l’amnesia, il riconoscimento delle atrocità commesse e, più recentemente, il negazionismo. Interessante l’analisi di come la memoria pubblica giapponese si venga strutturando non solo nel discorso storiografico ma nello spazio: nei musei e nei santuari, e come anche in questo caso si assista ad una lotta della memoria.