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La campagna di Russia. 1941-1943

Maria Teresa Giusti
Bologna, il Mulino, 375 pp., € 26,00

Anno di pubblicazione: 2016

Dopo il suo importante lavoro su I prigionieri italiani in Russia, Giusti ha allargato
l’orizzonte della ricerca all’intera vicenda della partecipazione italiana all’aggressione
all’Urss. Il filo conduttore della narrazione è l’impreparazione a un conflitto che si trasformò
presto in una delle maggiori tragedie della storia dell’Italia unita. Nonostante la
decisione di condurre la «guerra parallela» con i tedeschi risalisse al maggio 1940, l’Italia
partecipò all’«operazione Barbarossa», iniziata un anno dopo, con un corpo di spedizione
male armato ed equipaggiato. Altrettanto nefaste furono le rivalità ai vertici del Csir, che
favorirono l’emergere di comandanti mediocri, ma, in vista di una vittoria data per certa,
tali da non fare ombra a Mussolini. Le prime stentate vittorie, ottenute su un nemico
stremato e in ritirata, con il sostegno decisivo della Wehrmacht, furono utilizzate come
pretesto per inviare un corpo di spedizione ancor più numeroso, l’Armir, che, chiamato
a difendere un fronte troppo esteso per l’addestramento e i mezzi a disposizione, fu
distrutto nel corso della battaglia di Stalingrado. Solo lo sfaldamento dell’Armata Rossa
avrebbe potuto evitare questo epilogo, per il resto reso ineluttabile da carenze strutturali
e soggettive.
Dalla nuova documentazione raccolta con scrupolo negli archivi russi e italiani non
può giungere una risposta diretta al nodo centrale della sconfitta: perché l’Italia entrò con
tanta leggerezza in una guerra che poteva evitare? È possibile gettare tutte le responsabilità
su Mussolini? A ragione l’a. sottolinea in più passaggi che il diverso comportamento
in battaglia degli eserciti tedesco e italiano derivò anche dalle differenti motivazioni. Per
quanto criminale e megalomane fosse il progetto di un «nuovo ordine europeo», desta orrore
anche il cinismo di chi partecipò a una guerra solo per sedere al tavolo delle trattative,
e di quanti, fra militari, industriali, gerarchi, non si opposero a una guerra che sapevano
mal concepita e peggio proseguita.
Non avvalorano del tutto il mito degli «italiani brava gente» le lettere dei soldati italiani
dal fronte, intercettate dall’Nkvd, e rinvenute da Giusti negli archivi russi (pp. 160
sgg.), che esprimono una diffusa convinzione di poter vincere la guerra senza particolari
sacrifici; non si interrogano sulle sue ragioni, che al più giustificano come una crociata
religiosa e, fra gli ufficiali, antibolscevica; condannano l’attitudine sprezzante dei tedeschi,
ma temono soprattutto l’impreparazione a combattere in condizioni di freddo polare;
provano simpatia per i civili, ma si macchiano anche loro di crimini contro prigionieri e
popolazione, pur se minori rispetto agli alleati. La riflessione giunse poi, dopo la sconfitta,
e solo per alcuni, e con un senso di disagio si leggono le pagine sugli espedienti adottati
per sottrarre militari accusati di crimini di guerra non solo alla «giustizia» sovietica ma a
un giudizio equo e pubblico in Italia (pp. 202-208).
Al lavoro di Giusti va riconosciuto il merito di aver aggiunto importanti elementi di
riflessione alla sempre aperta questione del carattere nazionale degli italiani.

Fabio Bettanin