Cerca

La Casa del governo: una storia russa di utopia e terrore

Yuri Slezkine
Milano, Feltrinelli, 1216 pp., € 39,00 (ed. or. Princeton, Princeton University Press, 2017, traduzione di Bruno Amato)

Anno di pubblicazione: 2018

Il libro è incentrato sulle vicende di quanti, durante lo stalinismo, abitarono presso
l’edificio che ancora oggi svetta sulla riva della Moscova non lontano dal Cremlino: la
Casa del governo. L’opera si divide in tre parti: 1) la conquista e il consolidamento del
potere da parte dei bolscevichi; 2) il primo piano quinquennale; 3) le epurazioni che
colpirono i membri del Partito. L’analisi di cosa fu il bolscevismo si intreccia con la saga
familiare dei suoi dirigenti e la letteratura di quegli anni. L’Epilogo si basa sulle opere di
Jurij Valentinovič Trifonov, tra cui spicca La casa del lungofiume, ispirata proprio alla Casa
del governo dove lo stesso scrittore soggiornò.
La tesi dominante è che i bolscevichi furono membri di una setta religioso-spirituale
con un forte senso di selettività ed esclusività, che credeva alla redenzione di un mondo
prossimo all’apocalisse grazie al proletariato e all’istaurazione del comunismo. Il bolscevismo
fu una religione perché funzionò come una religione: cristiani e socialisti «avevano
molto in comune […] ognuno usava il linguaggio biblico del popolo eletto e di un destino
di sofferenza per l’umanità» (pp. 43-44). Il Grande terrore fu la riproposizione su
larga scala di un rito sacrificale (p. 775). Il Dio bolscevico, infine, fallì perché i figli non
condivisero la fede dei padri; nel contesto russo, quei missionari in grado di «conquistare
un impero» non ebbero abbastanza risorse «per convertire i barbari o per riprodursi in
patria» (p. 1045).
L’a. ha il merito di gettare nuova luce non tanto sul come Lenin e compagni agirono,
ma sul perché fossero convinti della giustezza delle loro azioni, ponendo in primo piano
la percezione che essi ebbero di se stessi. Il modo in cui le fonti (lettere, diari, racconti
ecc.) sono state utilizzate per avvalorare tale tesi solleva però qualche dubbio. Ad esempio,
quanto sinceri erano i diari o le lettere scritte durante il Grande terrore? Quanto i giudizi
positivi sugli arresti (o le confessioni) erano una forma di conformismo nel tentativo di
sopravvivere piuttosto che l’ennesimo atto di fede verso il Partito? Il bolscevismo non fu
mai un movimento omogeneo, nonostante le memorie agiografiche dei suoi militanti, e
lo stesso Lenin dovette lottare più volte per persuadere i compagni della correttezza delle
proprie scelte. Più che un profeta a cui i discepoli si affidarono con cieca deferenza, Lenin
– per quanto dotato di indubbio carisma – fu un politico moderno e spregiudicato.
In definitiva, il bolscevismo appare qui come un fenomeno «a-storico», poco o nulla
legato al contesto. Seppure risulti stimolante sottolineare che la mentalità e le azioni
bolsceviche furono legate a pratiche e immaginario di tipo religioso, bisogna tenere in
debito conto quanto nella storia sovietica pesarono le eredità culturali dell’età dei lumi, la
tradizione rivoluzionaria ottocentesca europea, nonché la violenza scaturita dalla Grande
guerra e dalla disintegrazione degli imperi multietnici.

Andrea Borelli