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La città capitale. Firenze prima, durante e dopo

Zeffiro Ciuffoletti
Firenze, Le Lettere, 215 pp., € 16,50

Anno di pubblicazione: 2014

La storia di una capitale – giustamente inserita in un periodo più lungo del quinquennio
1865-1870 – quella di una classe dirigente – i «consorti» – e quella delle scelte
urbanistiche, che trasformarono a fondo l’immagine di Firenze, costituiscono l’interessante
intreccio del volume.
Nel 1865, quando la capitale vi venne trasferita in seguito alla Convenzione di settembre
– trasferimento che «obbligò» il Parlamento ad approvare, dopo anni di rinvii, le
leggi di unificazione amministrativa e legislativa –, la città, sottolinea l’a., non era in declino:
manteneva i caratteri di città simbolo della cultura, presentava segni di nuova vitalità
in seguito allo sviluppo delle ferrovie e del commercio; nel settembre 1861 vi era stata
inaugurata la prima Esposizione nazionale di agricoltura, industria, arti e commercio.
L’insediamento a Firenze della Reggia, del Parlamento, del governo, dei Ministeri
con i relativi impiegati e le loro famiglie, delle ambasciate e delle redazioni di giornali, fu
giudicato tuttavia come un sacrificio dai «consorti» («una tazza di veleno», scrisse Ricasoli).
In pochi anni la popolazione passò da 118.000, nel 1861, a circa 200.000 nel 1870;
molte famiglie furono costrette, per il caro affitti, a lasciare il centro storico; vennero
abbattute le antiche mura, ampliati i confini comunali, costruiti nuovi quartieri, strade e
piazze, ampie aree verdi, servizi. La grande operazione urbanistica fu resa possibile dalla
presenza di capitali e imprese straniere e dal ruolo svolto dalle più importanti banche
toscane. Non mancarono speculazioni, episodi di corruzione, ma nel complesso il piano
Poggi fece di Firenze una delle città più moderne d’Europa; l’esigenza di realizzarlo
rapidamente si rivelò però devastante per le finanze comunali che peggiorarono dopo il
trasferimento della capitale a Roma (per lo spopolamento, l’interruzione dei lavori, le crisi
di attività commerciali, artigianali e per la crisi del mercato immobiliare). Il rifiuto di una
legge speciale e di tutte le richieste del Comune, che il volume illustra con cura, esasperò i
rapporti fra i «consorti» (il Sindaco Peruzzi, Cambray-Digny fra gli altri) e il governo.
La crisi del Comune si intrecciò con la crisi della Destra. L’irrisolta «questione di
Firenze», la questione ferroviaria, la politica di accentramento e fiscale, le posizioni liberiste
motivarono la dissidenza dei «consorti» e favorirono l’ascesa della Sinistra al potere.
Neppure i governi di Depretis e di Cairoli (durante i quali l’appello Salviamo Firenze si
intrecciò con il dibattito su «Firenze Atene d’Italia» o città manifatturiera) presero però le
misure attese. Il sindaco e il Consiglio comunale furono obbligati alle dimissioni. Il Comune
dovette trasferirsi a Palazzo Vecchio dopo la necessaria cessione di Palazzo Feroni.
La crisi economica e sociale raggiunse il suo apice, con una miseria dilagante; la città ebbe
«il primato dei fallimenti, dei suicidi e dei reati contro la proprietà» (p. 173). Ancora nel
1892 erano quasi 72.000 i poveri riconosciuti tali su poco più di 180.000 abitanti.

Pier Luigi Ballini