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La Democrazia cristiana in Sardegna (1943-1949). Nascita di una classe dirigente

Luca Lecis
Milano, Guerini e Associati, 479 pp., € 32,00

Anno di pubblicazione: 2013

La ricostruzione di un tema storiograficamente ancora lacunoso si avvale di una vasta documentazione originale. Un iniziale sguardo comparativo alle Regioni del Mezzogiorno fa emergere la peculiarità sarda: un episcopato direttamente coinvolto nel dare impulso alla Dc (p. 40). Esso si fa interprete della preoccupazione di una popolazione che dal giugno del 1942 subisce i bombardamenti alleati, rimanendo isolata e fuori dai circuiti di rifornimento. I vescovi collettivamente incoraggiano la nascita del Partito ed intervengono quando l’articolazione politica pare disgregante. È il caso del sassarese, dove la polarizzazione tra gli ex popolari di Segni e il gruppo di Pozzomaggiore – un gruppo di preti e laici antifascisti, favorevoli all’opzione repubblicana, con tendenze separatiste e un programma di riforme economiche radicali, come la distribuzione delle terre ai contadini e la nazionalizzazione delle industrie – appariva pericolosa. I vescovi intervennero con una lettera dell’8 settembre 1943 perché i cattolici si «unissero senza alcun indugio» in «un unico movimento organizzato, con senso di concordia e disciplina», eleggendo «un consiglio direttivo con due rappresentanti per ogni diocesi» ed «un comitato esecutivo» (p. 47). Sin dal voto amministrativo del 1946 la Dc è il partito più votato dell’isola, e si conferma col 41 per cento dei consensi nel voto per la Costituente. Il referendum del 2 giugno registra un voto per la monarchia al 61 per cento: i ceti medi urbani e il mondo rurale scelgono la continuità istituzionale. Il fronte delle sinistre repubblicane (Pci, Psiup, Psd’a) assomma più voti di quelli espressi in Sardegna per la Repubblica. La estrema battaglia del 1948 garantirà alla Dc il 52,1 per cento con il Fronte popolare fermo al 20 per cento e il Psd’a al 10. Ma il voto mostrerà presto il suo volto di transitorietà: lo statuto speciale per la Sardegna, approvato prima dello scioglimento dell’Assemblea Costituente, risulterà frutto di una mediazione al ribasso che limita i poteri regionali e delude la popolazione. Il primo voto per il Consiglio regionale – con il tema dell’autonomia al centro dei programmi di Dc e Psd’a – vede la Dc scendere al 34 per cento, il Pci attestarsi al 19,4, con incrementi delle destre (monarchici 11,6; Msi 6,1) e ridimensionamento del Psd’a (6,6). Però la Dc sarda è stata capace – altro aspetto significativo ben ricostruito dall’a. – di assumere i contenuti autonomisti regionali, rendendoli coerenti con le «idee ricostruttive» nazionali. Muovendosi su tale linea ha eroso gradualmente il consenso attorno al Partito sardo d’azione, conducendolo alla coalizione in posizione subalterna, e aprendo la stagione della egemonia quarantennale di una classe dirigente democristiana allora acerba. Infatti Silvio Gava, delegato del Partito nazionale per la Sardegna, in un rapporto del 1949 riconosceva che gli eletti del Consiglio regionale difettavano «per le competenze, il che rappresenta un notevole pericolo di insuccesso nell’amministrazione regionale» (p. 470). La ricostruzione è minuziosa e convincente, da ampliare per comprendere come la gestione del potere abbia consolidato quella classe dirigente.

Augusto D’Angelo