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La politica cinematografica del regime fascista

Alfonso Venturini
Roma, Carocci, 224 pp., € 23,00

Anno di pubblicazione: 2015

Il cinema fascista, nei suoi rapporti con la storia politica, sociale e culturale del ventennio, è stato probabilmente il principale oggetto di ricerca negli studi su «cinema e storia» in Italia. A partire dalla fine degli anni ’60 fino ad arrivare ai giorni nostri nu- merosi lavori hanno considerato la fonte cinematografica e le vicende a essa collegate non soltanto come un indicatore particolarmente sensibile dei mutamenti della politica propagandistica attuata dal regime nella sua continua battaglia di fascistizzazione della società italiana, ma anche una testimonianza indiretta, per questo complessa da inter- pretare, degli umori, delle tendenze, financo delle contraddizioni di una popolazione formalmente «allineata» alle direttive provenienti dall’alto, ma intimamente attratta da miti e immaginari tutt’altro che autarchici e di ben più ampio respiro.
Il libro di Venturini si situa al crocevia fra storia del cinema, storia politica e storia culturale, delineando un quadro articolato e ricco di sfumature delle scelte che portarono il regime a considerare il cinema di finzione come «l’arma più forte» al servizio della pro- pria politica totalitaria dopo oltre dieci anni di disinteresse. Attraverso un attento spoglio di materiale – tra cui spiccano le carte relative all’attività di Paulucci di Calboli negli anni della presidenza dell’Enic e dell’Istituto Luce – l’a. traccia una ricostruzione convincente delle fasi che scandirono il lento ma inevitabile incontro fra le esigenze politiche del fa- scismo e la ristrutturazione di un settore, quello cinematografico, che alla fine degli anni ’20 versava in crisi profonda. Proprio sul continuo dialogo fra interessi economici privati e pubblici e obiettivi politici di breve e lungo periodo si giocò una partita interna al re- gime che vide spiccare la figura di Luigi Freddi quale vero deus ex machina della politica fascista in campo cinematografico. A capo della Direzione generale della cinematografia (1934), egli tracciò le linee di una collaborazione proficua fra Stato e imprenditori privati attraverso un sistema di prestiti, incentivazioni e premi, che sopravvisse pur con diverse modifiche alla stessa caduta del regime informando la politica cinematografica nazionale anche negli anni repubblicani.
Il testo non tralascia di esaminare le ripercussioni che questo nuovo indirizzo ebbe nella creazione di un immaginario di celluloide intimamente fascista. Questo aspetto, tuttavia, risulta meno sviluppato, concentrandosi soprattutto su alcuni periodi e generi cinematografici quali gli anni di guerra e il filone dei «telefoni bianchi». Anche argomenti rilevanti come la nascita del Festival di Venezia e la costruzione di Cinecittà vengono af- frontati in relazione al loro rapporto con il quadro generale della politica cinematografica fascista.
Pur con una non perfetta conoscenza della bibliografia più recente su alcuni dei temi trattati, nel complesso il volume si segnala come un valido strumento di approfondimen- to critico, basato su documenti poco noti, interrogati con puntualità e rigore.

Maurizio Zinni