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La politica linguistica in Italia. Dall’unificazione nazionale al dibattito sull’internazionalizzazione

Lucilla Pizzoli
Roma, Carocci, 373 pp., € 31,00

Anno di pubblicazione: 2018

Solo una ridotta percentuale della popolazione – all’altezza del 1861 – poteva com- prendere e parlare l’italiano: circa il 2,5 per cento secondo De Mauro (1965), il 10 per cento secondo Castellani (1982) a fronte di un 78 per cento di analfabeti. La «questione della lingua» si configurò quindi, e da subito, come aspetto centrale per la costruzione dell’identità italiana.
Lo strumento più significativo per affrontare il problema fu identificato nella politi- ca educativa. Particolare rilievo ebbe la commissione istituita dal ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio e presieduta da Alessandro Manzoni (1868). Fu quest’ultimo a ideare un progetto di educazione linguistica incentrato sul fiorentino moderno e sulla presenza nel territorio di insegnanti fiorentini, nell’obiettivo di arricchire la lingua lette- raria con la lingua parlata dei ceti intellettuali, ma si scontrò con l’assenza di un corpo docente in grado di attuarla. Il difetto principe del progetto manzoniano era tuttavia di natura teorica giacché non teneva conto dei processi naturali di apprendimento e uso delle lingue. Un processo d’insegnamento-apprendimento delle lingue – per una popola- zione largamente dialettofona – avrebbe dovuto considerare tale pluralismo linguistico e valorizzarlo. La politica educativa, al contrario, tese a scoraggiare se non a reprimere l’uso dei dialetti. E se tale atteggiamento raggiunse il culmine nel ventennio fascista, esso di fatto caratterizzò a lungo le politiche nazionali.
Ciò non significò assenza di idee e iniziative: Graziadio Isaia Ascoli, Francesco De Sanctis, Giuseppe Lombardo Radice proposero sistemi di insegnamento per passare «dal dialetto alla lingua» (pp. 145-146). Furono però eccezioni che non ebbero modo di con- solidarsi. L’approvazione della Costituzione cambiò il quadro legislativo: l’art. 3 sanciva l’impossibilità di essere discriminati in base alla lingua; l’art. 6 proteggeva le minoranze linguistiche e l’art. 21 riconosceva il diritto alla libera espressione del pensiero (garanten- do implicitamente la possibilità di esprimersi nella propria lingua madre). Ma non mutò il tradizionale atteggiamento verso il dialetto. Una pedagogia linguistica efficace avrebbe dovuto fare del dialetto la base per arrivare all’italiano; di contro, l’ostilità verso il dialetto finì col rallentare il processo di apprendimento e riflessione sulla lingua. Non è un caso che la diffusione dell’italiano sia dipesa dalle profonde trasformazioni dell’Italia più che dalla politica scolastica.
Un importante mutamento si ebbe negli anni ’60 e ’70 grazie all’influsso di gruppi di intellettuali – da don Lorenzo Milani ai linguisti del Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) – che nel 1975 elaborarono le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica con le quali cambiava la posizione verso i dialetti.
Tale approccio influenzò le riforme dei programmi della scuola media (1979) e della scuo- la elementare (1985), ma un simile felice intreccio tra discipline scientifiche e politiche di educazione linguistica – sottolinea l’a. – non si ripeté mai più.

David Gargani