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L’anarchico che non uccise il re. Il caso Pietro Acciarito

Piero Proietti
Milano, Mursia, 166 pp., € 15,00

Anno di pubblicazione: 2018

Umberto I ha subito tre tentativi di attentato: il primo da parte di Giovanni Passannante
nel 1878, il secondo per mano di Pietro Acciarito nel 1897, il terzo, risultato fatale,
a opera di Gaetano Bresci nel 1900. Il testo di Proietti si occupa del secondo attentatore
del re, il ventiseienne Acciarito. Fabbroferraio, immigrato da Artena a Roma, dove lavora
in un’officina in via Machiavelli, frequenta gli ambienti socialisti e anarchici e delle idee
libertarie condivide gli assiomi fondamentali.
Il 22 aprile 1897, nei pressi di Porta San Giovanni, salta sul predellino della carrozza
che sta trasportando il monarca, cercando di colpirlo con un pugnale da lui fabbricato
con alla base della lama da una parte una lettera A e dall’altra una croce. Il fendente va a
vuoto, deviato dal braccio di Umberto I e l’attentatore, dopo essere rotolato sul selciato,
viene arrestato. Interrogato sui motivi del suo gesto risponde: «Non riesco a spiegarmi
come si possono lasciare incolte tante terre, sapendo che tanti operai sono disoccupati;
lasciamoli coltivare le terre, così si ravviverà il commercio e le industrie. Pensavo anche
con rammarico che tanti palazzi di recente costruzione sono disabitati, mentre la gente
che non ha mezzi per pagare la pigione dorme per le strade e nelle campagne. Tutti questi
pensieri avevano eccitato il mio animo contro le classi agiate e contro il re, il quale, a mio
avviso, è la causa di tutto, perché dal suo volere potrebbe dipendere il benessere della popolazione.
Se il re volesse, potrebbe imporre ai grandi proprietari di far coltivare le terre;
egli solo potrebbe trovare lavoro a tutti questi operai disoccupati» (p.35).
Poco più di un mese dopo Acciarito viene condannato ai lavori forzati a vita e a
sette anni di isolamento, oltre che alla perdita dei diritti civili e politici. Il governo di Di
Rudinì, inoltre, coglie l’occasione per inasprire la repressione contro il mondo sovversivo
e polizia e magistratura cercano di svelare gli intrighi di un presunto complotto dietro
all’atto dell’artenese. Si susseguono gli arresti tra gli anarchici e tra i vari fermati, uno, il
falegname Romeo Frezzi, muore in carcere dopo essere stato brutalmente pestato dagli
agenti, che cercano, tra l’altro, di accreditare invano la tesi di un suicidio. Il successivo
processo contro i presunti complici di Acciarito finisce in un nulla di fatto, in quanto i
testi riescono a dimostrare l’inesistenza del complotto. Acciarito ha agito da solo. Nonostante
un ricorso in Cassazione patrocinato da Francesco Saverio Merlino, passa in
prigione il resto della sua vita, morendo nel carcere di Montelupo il 4 dicembre 1943.
Il testo di Proietti ricostruisce con cura sia le vicende relative all’attentato, sia il
contesto politico ed economico in cui va contestualizzato il gesto e, smontando la semplificazione
giornalistiche che hanno fatto di Acciarito un pazzo o uno sprovveduto, analizza
la motivazione dell’atto, ovvero la necessità di denunciare con forza la situazione sociale
insostenibile delle classi popolari, «un popol di schiavi dalle miserie affranti», come ebbe
a definirle il poeta e socialista Ferdinando Fontana.

Antonio Senta