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Lavoro e cittadinanza femminile. Anna Kuliscioff e la prima legge sul lavoro delle donne

Paolo Passaniti (a cura di)
Milano, FrancoAngeli, 367 pp., € 42,00

Anno di pubblicazione: 2016

Accade talvolta che i titoli dei libri non rendano pienamente perspicua la ricchezza dei loro contenuti, come nel caso di questo volume, ben lungi, ovviamente, dal disconoscere l’indiscusso ruolo di protagonista di Anna Kuliscioff nell’animato ibattito che precedette la promulgazione nel 1902 della legge protettiva del lavoro delle donne e dei fanciulli, nota come legge Carcano dal nome del ministro proponente, ma «politicamente ascrivibile al carismatico presidente del Consiglio» (p. 91) Giuseppe Zanardelli.
Frutto della sinergia tra giuslavoristi, storici del diritto e storici della società e delle istituzioni, i saggi qui raccolti collocano la vicenda di uno dei primi provvedimenti della moderna legislazione sociale italiana nel più ampio quadro politico-culturale dell’età giolittiana. Da alcuni esaltata come la «pietra miliare del riformismo giolittiano», criticata invece da altri come «una matassa confusa di buone intenzioni» (A. Buttafuoco, Questioni di cittadinanza. Donne e diritti sociali nell’Italia liberale, Siena, Protagon, 1995, p. 92), intesa a conservare lo status quo e la minorità delle donne, da tutelare al pari dei minori, la legge nacque limitata, rispetto alle attese, colmando parzialmente la lacuna nell’ambito della più progredita legislazione europea (Gianni Silei). Assai più avanzata era stata la proposta redatta dal gruppo facente capo alla Camera del lavoro di Milano, sotto la guida della Kuliscioff, non senza suscitare discussioni e contrasti all’interno dello stesso Psi, tiepido e non di rado ambiguo nei confronti del lavoro femminile. Ne era stato il fulcro la tutela della maternità (Maria Vittoria Ballestrero), poiché la questione della difesa del lavoro femminile si intrecciava inevitabilmente a quella della protezione delle madri lavoratrici (Michela Minesso).
La rilettura dell’impegno della Kuliscioff, ormai disancorata dal «discutibile dualismo» (p. 124) che l’ha confinata a lungo in un limbo tra socialismo e femminismo, prescinde dai ben noti contrasti con la Mozzoni e la Majno, figure di primo piano nel milieu dell’emancipazionismo milanese, e mette in risalto la sua concezione del lavoro della donna come fondamento di una cittadinanza ancora «suddita», dimidiata, e dall’altro come strumento di liberazione dalla soggezione nell’ambito della famiglia (Paolo Passaniti). Sin dalla sua celebre conferenza Il monopolio dell’uomo (1890) la Kuliscioff aveva individuato il nucleo della questione femminile nella questione del lavoro, elemento in grado di liberare la donna dal viluppo della famiglia (Floriana Colao). Alle soglie del nuovo secolo, nel declino della cultura positivista, il polisemico e ambiguo uso del termine «donna nuova», ricorrente in giornali e riviste, rimanda tuttavia a un quadro disomogeneo e controverso del femminile, riflesso delle tensioni tra modelli tradizionali di subalternità femminile e più dinamici profili emergenti da una realtà economico-sociale in evoluzione (Irene Piazzoni).

Maria Luisa Betri