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Le inchieste parlamentari. Un profilo storico-giuridico (Italia 1861-1900)

Irene Stolzi
Milano, Giuffrè, XXXVIII-328 pp., € 37,00

Anno di pubblicazione: 2015

Le inchieste, non previste dallo Statuto (l’art. 59, anzi, le escludeva), per la prima
volta disciplinate in tre artt. del Regolamento della Camera del 1868 – replicati in quello
del 1888, sostanzialmente in quello del 1900 –, si affermarono come caratterizzanti
la progressiva evoluzione del regime c.d. costituzionale puro in parlamentare. Il potere
d’inchiesta – il cui esercizio, dopo la grande stagione delle inchieste nell’età della Destra,
ebbe un grande incremento negli anni della Sinistra – fu considerato come un attributo
della natura stessa dell’assemblea. Per Devincenzi, valeva a sottolineare la differenza fra
i «governi popolari» e quelli «assoluti»: «soltanto i primi erano interessati a proseguire
l’accordo fra Nazione e Parlamento» (p. 40). L’a., che approfondisce il tema di un suo
precedente lavoro, non si è proposta la scrittura di una storia complessiva delle inchieste
nell’Italia postunitaria, ma piuttosto «di rintracciare, all’interno del dibattito sulle inchieste,
gli elementi ritenuti capaci di definire la natura giuridica di questo istituto» (p.
XXI) attraverso il raffronto fra due tipi di fonti: i contributi dei giuristi (pochi fino agli
anni ’80, poi se ne occuparono soprattutto i non orlandiani) e gli Atti parlamentari. Un
raffronto che avrebbe potuto essere arricchito dall’esame dei verbali degli Uffici e delle
Commissioni.
Il potere d’inchiesta è indagato nel suo fondamento e nei suoi limiti; i dibattiti sulle
inchieste analizzati in riferimento alla relazione fra governo e assemblea – diversamente
tematizzati rispetto alle differenti tipologie d’inchieste –, al rapporto fra assemblea e potere
giudiziario, fra attività della Commissione e quella della magistratura; al legame tra
inchieste e riforma (sociale) – al quale i giuristi prestarono poca attenzione – o interventi
di carattere repressivo (come la c.d. legge Pica).
La scienza giuridica ha dato delle inchieste – utilizzando poco le classificazioni (legislative,
politiche, personali) – «una raffigurazione pacificata» (p. 83), l’immagine di una
relazione armonica fra i poteri dello Stato – contraddetta dalle discussioni parlamentari.
Per le inchieste politiche – la cui distinzione dalle prime si rivelò assai fluida –, strettamente
connesse all’evoluzione in senso parlamentare della forma di governo, i giuristi
scelsero la sfida teorica «che mirava a tener lontana tanto la prospettiva di un deciso
antagonismo tra Camera ed esecutivo, quanto l’altra di una connivenza opportunistica
tra maggioranza parlamentare e Governo» (p. 138). Antagonismo che invece si verificò
più volte smentendo l’idea dell’optimum costituzionale, nonostante il diritto d’inchiesta
non fosse esercitabile dalla minoranza (lo previde l’art.34 della Costituzione di Weimar;
lo sostenne poi senza successo Costantino Mortati in Assemblea Costituente). In tema
di inchieste personali – ben indagate come le precedenti –, i giuristi posero non soltanto
il problema dei limiti, ma la questione della loro stessa ammissibilità (accettata, seppure
in senso restrittivo, da Vittorio Emanuele Orlando; Bonghi ne aveva sostenuto invece la
incostituzionalità).

 Pier Luigi Ballini