Anno di pubblicazione: 2010
Il titolo non inganni: il libro di Gudkov e Zaslavsky non è l’ennesimo manuale di storia della Russia post sovietica, quanto una riflessione sui motivi che inducono di nuovo a guardare alla politica del Cremlino con preoccupazione. All’origine, secondo i due studiosi, vi è il diverso cammino seguito dalla transizione post comunista in Europa orientale, dove essa fu «condizionata» dalla Ue, e in Russia, dove «nessuno dei protagonisti, a cominciare da Gorbaciov e Eltsin […] aveva in mente quale fosse il modello più desiderabile per la nuova società postotalitaria» (p. 64). Priva di una coerente strategia, la privatizzazione in Russia si risolse nell’acquisizione delle imprese da parte della «nomenclatura economica sovietica», preludio a una «gestione irresponsabile e parassitaria» (p. 52). L’assenza di «un sostegno diffuso e di un vasto riconoscimento sociale» fu compensata mantenendo artificialmente bassi i prezzi al consumo ed evitando di licenziare i lavoratori in eccesso (p. 55). L’entrata in campo degli oligarchi, nel corso della seconda ondata di privatizzazioni, risalente al 1996, consentì una migliore gestione delle imprese, ma non evitò il parziale default del 1998. Il ruolo svolto dagli interessi corporativi e settoriali nel condizionare le scelte del presidente El’cin, che non godette mai di una maggioranza nella Duma, pongono in dubbio l’utilità dell’uso della categoria di «società postotalitaria», ma su un punto gli aa. colgono nel giusto: la rapida ripresa economica seguita alla crisi dimostra che la via delle riforme era ancora aperta. Putin ebbe un ruolo decisivo nell’indirizzare gli eventi in altra direzione. Il settore energetico è stato ampiamente rinazionalizzato; è stata abolita l’elettività dei governatori; è cresciuto il ruolo dei siloviki; violenze e calunnie hanno colpito gli oppositori; le diseguaglianze sociali sono cresciute; le iniziative del Cremlino sono ispirate da un nazionalismo «conservatore, difensivo, compensatore e isolazionista», privo di un programma di modernizzazione (pp. 161-62). Secondo il testo, «si può parlare del regime di Putin come di un autoritarismo morbido» (p. 117). Altri studiosi preferiscono l’uso delle categorie di «illiberal democracy» (Zakaria), «delegative democracy» (O’Donnell), «low caliber democracy» (Sakwa), che colgono altri aspetti degli eventi dell’ultimo decennio, a cominciare dal consenso popolare goduto dalla presidenza Putin, favorito dalla crescente depoliticizzazione di una opinione pubblica, che sembra accettare una amministrazione capace di garantire, se non efficienza, trasparenza e il rispetto dello Stato di diritto, almeno una condotta prevedibile e razionale. Gli stessi Gudkov e Zaslavsky, nonostante il giudizio senza appelli del «regime», ritengono che per il futuro la «variante più probabile» sia non il suo crollo, ma il «passaggio a una fase di crisi cronica», con «alcuni cambiamenti parziali […], di carattere adattativo» (p. 182).Purtroppo, la morte di Zaslavsky, che ha privato la comunità degli studiosi di una voce autorevole, non gli consentirà di verificare e commentare questa previsione.