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L’ombra lunga della tradizione. Cultura politica e prassi matrimoniale nel Regno di Napoli (1809-1815)

Paola Mastrolia
Torino, Giappichelli, 207 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2018

Si nota un certo interesse, tra gli storici del diritto, per il tema del divorzio nell’Italia
napoleonica, colmando un vuoto della ricerca storica che finora solo alcuni studi locali
avevano parzialmente riempito. Nel 2017 è stato pubblicato, sempre da Giappichelli, il
bel libro di Stefano Solimano, Amori in causa. Strategie matrimoniali nel Regno d’Italia
napoleonico (1806-1814). Ora il lavoro di Paola Mastrolia estende l’indagine al Regno di
Napoli, dove il Code Napoléon restò in vigore dal 1° gennaio 1809 fino al 13 giugno 1815.
L’a. ricostruisce, nei primi due capitoli, le reazioni dei giuristi di fronte alla necessità
di applicare un diritto totalmente nuovo, dopo il fallimento di alcuni tentativi di adattare
il codice alle tradizioni del Regno, così come già era accaduto nel Regno d’Italia. Le retoriche
prevalentemente adottate dai togati che ricoprivano cariche influenti puntarono a
ridimensionare il carattere rivoluzionario del Code civil e a sottolinearne la continuità con
le leggi patrie tramite il richiamo alla comune fonte del diritto romano, così da rendere
meno traumatico il passaggio alla nuova legislazione, come già si era fatto non solo nel
Regno d’Italia grazie a Giuseppe Luosi, ministro della Giustizia, ma nella stessa Francia:
il codice come frutto di una tradizione giuridica, oltre che di una svolta rivoluzionaria.
Riguardo al rapporto con la Chiesa, pur sottolineando la «collaborazione tra l’autorità
politica e quella ecclesiastica nella attuazione delle riforme» (p. 77), l’a. considera
strumentale l’atteggiamento di disponibilità del governo, che in realtà «proseguiva indisturbato
verso il processo di francesizzazione (e dunque di secolarizzazione) del Regno»
(p. 77). Bisognerebbe però domandarsi quanto avrà influito l’eterogeneità delle posizioni
del clero e in particolare la presenza di «un’ampia ala riformista» (p. 77), con simpatie
gianseniste, come Bernardo Della Torre, vicario generale di Napoli, e Giuseppe Capecelatro,
arcivescovo di Taranto.
Nell’ultimo capitolo l’a. analizza l’applicazione della legge, fornendo alcuni dati statistici
(purtroppo senza una tabella di sintesi) sulle cause di divorzio di tutte le 14 province
del Regno. A causa della lacunosità di alcune fonti, il totale delle cause discusse tra il 1809
e il 1815 risulta essere 60. Di queste, solo 5 per mutuo consenso, perché la procedura era
talmente complessa che talvolta si preferiva fare domanda per causa determinata anche
se i coniugi erano entrambi d’accordo; 20 per adulterio della moglie e 4 del marito; 31
per eccessi, sevizie e ingiurie gravi, la cui formulazione così vaga nel testo legislativo dava
spazio alla discrezionalità dei giudici. Le vicende giudiziarie restano un po’ sacrificate nelle
note, ma soprattutto richiederebbero un’indagine più approfondita e un confronto con
le cause di separazione e annullamento, possibili solo su uno spazio geografico ridotto.
Compito degli storici, che potranno avvalersi di un’analisi puntuale del quadro giuridico
e della cultura del ceto togato grazie alla ricerca di Paola Mastrolia.

Daniela Lombardi